In un altro universo, questa recensione di No Time to Die sarebbe uscita nell'aprile dello scorso anno, periodo in cui era inizialmente previsto che assistessimo alla quinta e ultima avventura del James Bond interpretato da Daniel Craig. Poi è arrivata la pandemia, e il venticinquesimo film della saga di 007 è stato fra i primi a posticipare ripetutamente il proprio debutto nelle sale (e ancora pochi mesi fa si vociferava di un possibile ulteriore rinvio, causa variante Delta e il suo impatto sul Regno Unito in particolare). Vederlo quindi al cinema - nel caso del sottoscritto in IMAX, a una proiezione stampa legata al Festival di Zurigo, evento a suo modo legato al franchise dato che Bond è svizzero da parte di madre - rappresenta un traguardo importante: non la fine della calamità sanitaria che è tuttora in corso, ma un passo notevole nel ritorno a una certa forma di normalità. E da quel punto di vista è molto simbolico il film stesso, che nella sequenza prima dei titoli di testa, parzialmente girata in Italia, parla dell'importanza di lasciarsi alle spalle il passato e abbracciare il futuro. Una filosofia che è duplice, poiché vale per il lungometraggio di Cary Fukunaga, canto del cigno per la sesta incarnazione cinematografica ufficiale della spia ideata da Ian Fleming, e per il contesto in cui - finalmente - si presenta al pubblico.
Dimenticare è difficile
Avevamo lasciato James Bond (Daniel Craig) alla fine di 007 Spectre, pronto a godersi una nuova vita lontano dai servizi segreti insieme a Madeleine Swann (Léa Seydoux), ed è in tali circostanze che lo ritroviamo: i due sono felici, anche se lui, come fa notare l'amata, non riesce a non guardarsi costantemente alle spalle, un residuo di anni caratterizzati da violenza, inganni e paranoia. L'idillio è di breve durata, perché una nuova misteriosa minaccia spinge Felix Leiter (Jeffrey Wright) a contattare l'ex-007 per un incarico delicato, che richiede l'intervento di una persona ufficialmente fuori dai giochi. Ovviamente non ci vorrà molto prima che Bond torni in contatto con M (Ralph Fiennes), Moneypenny (Naomie Harris) e Q (Ben Whishaw), i quali sono attualmente supportati sul campo da una nuova agente 00 (Lashana Lynch) ma hanno anche bisogno dell'aiuto del loro vecchio amico, soprattutto quando salta fuori che il tutto è in qualche modo legato a Blofeld (Christoph Waltz). Ma il vero pericolo è rappresentato da un altro individuo, tale Lyutzifer Safin (Rami Malek), il cui piano malefico potrebbe avere conseguenze devastanti e irreversibili per tutto il pianeta.
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Una lunga avventura
Craig ha esordito nei panni di Bond in Casino Royale, alla fine del 2006, quasi quindici anni fa (No Time to Die non lo dice troppo esplicitamente, ma lascia intendere che ci sia stato il medesimo lasso di tempo sullo schermo nei cinque film). Un debutto contestato a monte, con un apposito sito di nome craignotbond.com che per l'intera durata della produzione del primo capitolo cercò di denigrare l'attore, principalmente per il suo fascino un po' rozzo e per il colore dei capelli (quest'ultimo un dettaglio ridicolo, dato che il mitico Sean Connery sul set indossava un toupet per nascondere una parziale calvizie precoce). Il sito ha cessato di esistere poco dopo l'esordio del film, acclamato per la sua volontà di reinventare il franchise, a quel punto a rischio di autoparodia, con un ritorno alle origini e un protagonista più brutale, ancora alle prime armi, capace di regalarci, complice la materia di base, ciò che i titoli di testa avevano sempre promesso ma mai veramente messo in pratica: il James Bond di Ian Fleming.
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Era una rottura con il passato, per certi versi, già avviata con Pierce Brosnan e qui portata a nuovi livelli, in particolare per quanto riguarda l'evoluzione dei personaggi femminili (epocale, da quel punto di vista, il troppo bistrattato Quantum of Solace, dove Bond non finisce a letto con l'alleata principale, ma anche il quarto episodio dove seduce Monica Bellucci, che durante le riprese aveva cinquant'anni e quindi rompeva gli schemi a livello di come è solitamente concepita la figura della donna in questi film). Ma è difficile lasciarsi completamente alle spalle ciò che è venuto prima, soprattutto in un franchise che degli elementi ricorrenti ha fatto il suo punto di forza, ed ecco che nel 2012, per il cinquantesimo anniversario della saga, è arrivato Skyfall che manteneva il principio di un approccio più maturo, con uno 007 molto vulnerabile emotivamente, ma non per questo disdegnava la classica ironia, i gadget o il ritorno in scena di figure emblematiche come Q e Moneypenny, elevate a veri comprimari e non più apparizioni fugaci. Il film successivo doveva essere l'ultimo per Craig, e per ciò che accade nel lungometraggio stesso e per circostanze esterne (l'attore, che si è sempre fatto male sui set bondiani, girò l'intero quarto capitolo con una gamba rotta), ma poi c'è stato un ripensamento.
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Come uscire di scena
A livello di pura durata dell'ingaggio, Craig è il Bond più longevo di sempre, e nel corso degli anni si è guadagnato sul campo il diritto di approvazione per la sceneggiatura e il regista. Per il suo addio si è rivolto a Cary Fukunaga, il primo cineasta americano nella storia del franchise, e in sede di scrittura ha dato una mano Phoebe Waller-Bridge, la creatrice di Fleabag. Il suo tocco è evidente soprattutto con i due nuovi volti femminili, tratteggiati in modo strepitoso (l'alleata cubana interpretata da Ana de Armas meriterebbe un film tutto suo), mentre la firma di Fukunaga consente al film di giocare con i generi, come testimoniano i primissimi minuti che, pur essendo formalmente coerenti con l'estetica generale della pellicola (la fotografia è dello svedese Linus Sandgren, premio Oscar per La La Land), hanno un tono a metà fra l'horror e il noir scandinavo, prima di cedere il posto ad atmosfere più riconoscibilmente legate alle avventure della spia britannica. È un'avventura ambiziosa, la più lunga di tutta la saga, ma ciascuno di quei 163 minuti è giustificato dalla necessità di chiudere un cerchio: oltre a funzionare come emozionante storia a sé, il film è il culmine di quindici anni di lavoro per il protagonista, la fine di un'era.
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Se ne parlava già due capitoli fa, quando Fiennes, prima di diventare il nuovo M, commentò senza troppi peli sulla lingua il fatto che Bond potesse non essere più al passo coi tempi (battuta che qui ritorna in maniera rielaborata). E ne riparla Safin, villain che si distingue dai predecessori per la pura, calma spietatezza e per il suo grado di pericolosità, dicendo "Io sono quello che ti ha reso obsoleto." A questo, la spia inglese risponde "Non lo sarò mai finché continuano a esistere quelli come te." Perché la creatura di Fleming sarà anche, sul piano concettuale, una reliquia della Guerra Fredda (come disse la M di Judi Dench ai tempi di Brosnan), ma non passerà mai di moda sui nostri schermi. E anche se questo è l'addio di Craig, che si congeda con un vertiginoso, sorprendente, spettacolare e toccante connubio di azione, pathos e introspezione, la promessa alla fine dei titoli di coda rimane sempre la stessa, invariata da cinque decenni: James Bond Will Return. Perché, per parafrasare il marketing di un altro recente capitolo finale, questa versione della saga è finita, ma la storia andrà avanti in eterno.
Conclusioni
Chiudiamo la recensione di No Time to Die, il lungo addio di Daniel Craig al personaggio di James Bond dopo quindici anni di onorato servizio e cinque film, sottolineando come il film sia fedele agli stilemi della saga e al contempo attento al giorno d'oggi, il venticinquesimo capitolo del franchise unisce sullo schermo azione, pathos, humour e introspezione. Naturalmente agitati, non mescolati.
Perché ci piace
- Daniel Craig si supera per l'ennesima volta nei panni di Bond.
- Rami Malek è un cattivo inquietante e affascinante.
- Il cast di contorno è solido come sempre.
- L'apparato tecnico è ineccepibile.
Cosa non va
- Alcune scelte narrative non metteranno d'accordo tutti.