Ci sono opere che anticipano i tempi; opere talmente moderne, e rivolte verso le fila di un futuro passato, che hanno bisogno di mesi, addirittura anni per essere capite, comprese, assimilate e apprezzate. Troppo avanti per un pubblico imprigionato nel proprio oggi, tanto queste pellicole, quanto i loro antenati pittorici (si pensi ai capolavori impressionisti, o alle tele di Van Gogh) sono pezzi anticonformisti che necessitano di una piccola evoluzione di sguardo, un cambiamento di punto di vista per tornare sulla giusta linea d'onda e cavalcare il gusto del proprio pubblico.
Ecco perché, un'opera come New York, New York, così tanto bistrattata alla sua uscita nelle sale, è oggi considerata una pietra miliare della commedia musicale cinematografica. 45 anni: una vita intera, tanto è servito per mutare il giudizio su un film che da flop di incassi si è trasformato in uno spettacolo senza fine, proprio come la vita che scorre tra le Avenue della Grande Mela.
New York, New York: la trama
2 settembre 1945. Mentre l'America festeggia la resa del Giappone a Times Square, il sassofonista Jimmy Doyle (Robert De Niro) e la cantante Francine Evans (Liza Minnelli) si incontrano per la prima volta. Di lì a poco i due inizieranno una relazione sentimentale tumultuosa e piena di incomprensioni. E il cuore stesso del film batte al ritmo di questo inseguimento lungo sette anni: tra rimproveri, abbracci, baci e offese la storia ripercorre ogni fase della relazione tra Jimmy e Francine, lungo binari paralleli tra vita privata e professionale, tra sogni realizzati e cuori spezzati.
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La musica della realtà
Ispirato ai classici del genere, New York, New York è un figlio ribelle che apprende le regole imposte dai propri padri, per rovesciarne le convenzioni. Un ribaltamento anarcoide, compiuto alla stregua di una componente umana imperfetta, posta al centro del palcoscenico depositando l'elemento musicale ai confini della storia. E così, quella caratteristica predominante e consistente del musical, fatta di brani eseguiti ex-abrupto, si fa adesso personaggio a se stante chiamato a fare la propria comparsa nei momenti opportuni che ne giustifichino la presenza. Apparentemente lontano dal proprio grembo di genere, a dettare una costante con quel giacimento aureo di musiche e balli, cineprese danzanti e gestualità teatrali, è la presenza di Liza Minnelli, attrice-simbolo dell'universo del musical (si pensi solo alla sua performance in Cabaret) e figlia di quel Vincente Minnelli a cui lo stesso Martin Scorsese intende ispirarsi nella realizzazione di quest'opera, su un soggetto di Earl Mac Rauc. Ma se all'esterno il pacchetto confezionato segue i dettami del genere, al suo interno tutto è il contrario di tutto. Non è un musical, e nemmeno un melodramma, la sesta fatica firmata Martin Scorsese: è un progetto ambizioso, ibrido, patchwork di genere costruito sulla commistione di componenti cinematografiche di divergente natura, incollate insieme con estremo equilibrio. Un mostro di Frankenstein tramutatosi in capolavoro; un corpo innestato di calore e imperfezione, fragilità e dubbi, gli stessi che colpiscono e investono l'essere umano rendendolo tale. New York, New York si fa pertanto incontro/scontro tra realtà quotidiane nello spazio di teatri di posa troppo stretti per universi umani troppo grandi. Sono mondi complessi, manipolati e costruiti su una mappa umana tracciata su sguardi intensi e ambigui, e corpo fragili e inquieti.
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Un'unione abbagliata dalla luce dell'ambizione
New York, New York non è un manifesto urbano, e nemmeno una sinfonia cittadina d un amore che nasce e fiorisce all'ombra dei grattacieli. Il film di Martin Scorsese è una commistione fantamasgorica e melodrammatica di segni di interpunzione in un saggio scritto con l'inchiostro colorato e cangiante di una cinepresa ora incapace di muoversi, per lasciare il giusto spazio di azione ad anime ingabbiate nelle loro posizioni, in una partita giocata a colpi di battute al vetriolo. Non ballano, non danzano, eppure Francine e Jimmy nella loro immobilità fisica, si spostano con estrema eleganza nello spazio dell'inquadratura con la forza di dialoghi carichi di ironia, e da una portata espressiva dinamica e avvolgente. Già, perché nella sottopelle di New York, New York scorre un brivido innescato dalla visione dei grandi classici della screwball comedy con un pizzico di malinconia tipica della New Hollywood. Un cocktail mescolato e non agitato dove la musica non si fa sostituta di pensieri e parole, ma accompagnatrice ed evidenziatore cangiante di emozioni sottaciute, o sentimenti tradotti in espressioni marcate.
La malinconia della fiaba moderna
Con New York, New York il musical smette di essere cantore di fantasia e immaginazione; l'universo imbastito da Scorsese non è più una parentesi fiabesca, ma sipario di una quotidianità verosimile, dove i personaggi cantano e suonano in locali, o nel corso di performance cinematografiche; è una musica che fa capolino nello stesso momento in cui lo farebbe nella realtà, donando in eredità all'opera di Scorsese un ulteriore sentore di realismo, all'interno di una cornice che promette di far sognare con gli incubi e i timori dell'umana imperfezione. Ed è qui che si ritrova lo scarto imprescindibile tra un insuccesso iniziale e un plauso compiuto a posteriori. Per un mondo che ricercava nello spazio di una sala un barlume di spensieratezza, si sostituisce un pubblico che va ora cercando un senso di catarsi. Proiettando le proprie paure in esistenze sconosciute, lo spettatore affida i propri sogni e ambizioni allo scorrere di altre vite, lasciando in eredità la quota di sofferenza per trattenersi quella illusoria di felicità. In un mondo sempre più egocentrico, dove il paradosso dell'essere social acuisce il narcisismo personale, ritrovare frammenti della propria singolarità nello spazio di una luce di proiezione ci avvicina a quel mondo cinematografico, così finzionale, eppure così realistico. Un mondo come quello di New York, New York.
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Il cuore che batte, la musica che stride
Non c'è nessun ponte ai piedi dell'arcobaleno in New York, New York. L'opera di Martin Scorsese si fa racconto umano di due sguardi che si incrociano e due anime che si abbracciano, rinsecchendosi per una sete di successo improvvisa e travolgente. Una finestra aperta su una papabile realtà resa possibile anche grazie alla coppia De Niro-Minnelli, bomba nucleare in attesa di esplodere. E così, la personalità iperbolica, imprevedibile, del Jimmy di De Niro, è ora perfettamente controbilanciata dalla mesta, dura e solo apparentemente algida Francine della Minelli. Un'altalena emotiva e caratteriale perennemente in equilibrio nel suo continuo moto oscillante tra alti e bassi di due personalità in antitesi, e per questo così attratte le une dalle altre. Sono due magneti che si attraggono per poi respingersi a vicenda, i due protagonisti di New York, New York: le due facce di una stessa medaglia lanciata nello spazio di un amore passionale, per poi spezzarsi una volta toccato il suolo del successo.
C'è un'alchimia travolgente tra Francine e Jimmy; una complicità tradotta visivamente da un'uguaglianza dei colori dei vestiari, e un'unione all'interno dell'inquadratura. Poi la crisi avanza, i primi segnali di un accordo stonato, una strumentazione che non va più a tempo, e i corpi vengono separati, gli sguardi divisi in un gioco di campi e controcampi. I loro mondi si scindono illuminati da tonalità cromatiche divergenti e complementari. Il rosso che da sempre avvolge lo sguardo passionale e indipendente di Francine, adesso gioca a braccio di ferro con il verde malinconico di Jimmy. Sono colori parlanti, espressionisti, evidenziatori cromatici di emozioni bloccate sulla punta della lingua e che neanche la musica, a volte, riesce a concretizzarsi nella forma di parole dette, sospirate, cantate.
Questa non è una storia d'amore, ma una storia reale
Non è una storia d'amore New York, New York, ma quello di un incontro, di due corpi che imparano a battere all'unisono e poi a ritmi divergenti, sincopati, auscultabili a intervalli irregolari. Le luci della ribalta non illuminano più il talento di una coppia ritrovatasi all'ombra del sogno, ma abbagliano la disillusione di sogni spentisi come fiamme di candele. Impossibile non stabilire un rapporto affettivamente diretto con personaggi modellati e restituiti con estrema umanità. Mescolando fragilità e un naturalismo interpretativo tale da renderli reali, De Niro e Minnelli rendono Jimmy e Francine due esseri umani colti nel loro vivere quotidiano e non più creature nate dallo scorrere di parole su fogli di sceneggiatura. Un'aderenza totale, un'immedesimazione completa tra interpreti e personaggi (rispondendo perfettamente ai dettami imposti dall'Actor's Studio, Robert De Niro imparò addirittura a suonare il sassofono per entrare nelle vesti del suo Jimmy) compiuta anche un processo di sostituzione che ha portato i due attori a improvvisare sul set, dilatando ulteriormente i tempi di realizzazione (e sforando di gran lunga il budget previsto). Il successo di Francine coincide con il recupero dei canoni prestabiliti del musical, dove la linearità cronologica lascia spazio a un corollario di balli e brani montati come diapositive di un sogno psichedelico a occhi aperti. La storia di Peggy Smith diviene un medley di momenti miscellanei raccordati secondo la logica del musical. Un film nel film capace di tradurre la perfetta aderenza di una donna con il tanto, agognato, successo. È una scatola cinese, un'idea metacinematografica che una volta aperta lascerà confluire il percorso da inseguire, e riprodurre 41 anni dopo con La La Land.
Prima di La La Land, c'era New York, New York
È tra i confini di un locale, che gli sguardi dei due protagonisti si incrociano, anticipando quelli di altri due sognatori, Mia e Seb in La La Land. Tutto muta per non cambiare mai, e così nell'arco di quarant'anni i sogni e gli amori si uniscono per spezzarsi, rimanendo gli stessi; a cambiare è la costa su cui poggiano i piedi di questi corpi danzanti, con mani che suonano e occhi che scrutano cieli illuminati da stelle, o bagnati da una fitta pioggia battente. Il tempo passa, e dopo Scorsese, con Damien Chazelle la costa orientale lascia il testimone di terra promessa di sogni spezzati e amori scheggiati dall'ambizione, a quella occidentale. Prima New York, poi Los Angeles: nel mezzo una macchina da presa che traccia con l'inchiostro di una realtà fantastica i confini di un artista di successo, ma ormai solo, perché impossibilitato a conciliare carriera e sentimenti, sogni e realtà. Francine e Jimmy diventano i genitori putativi di Mia e Sebastian; incapaci di liberarsi dai sogni dei propri antenati, ne replicano in toto fragilità e ambizioni, seguendo pedissequamente i loro cammini. Il bacio del successo scalfisce e si sostituisce a quello dell'amore. E così la City of Stars diviene il perfetto contrappunto di New York, New York. Le stelle che illuminano volti pieni di sogni e passione, si fanno contrappunti perfetti di finestre spalancate di grattacieli viventi, e lampadine di palcoscenici sempre in azione. Nessun compimento del lieto fine; gli sguardi che si incrociano un'ultima volta di Seb e Mia qui lasciano spazio a un vicolo bagnato in eterna attesa di un incontro che non avverrà mai; un'eternità sospesa, la stessa che si frappone nello spazio di due anime destinate a rincorrersi lungo una ciclicità senza fine, inseguite dall'insonnia urbana di una città che non dorme mai, ma sogna sempre.