Nero più del nero
Il nero, il grigio, la notte, il buio. Il buio della mente, quello che abbiamo all'interno del cervello quando non si è lucidi o quando semplicemente non si riesce a ricordare. Il passato oscuro e nebbioso e ciò che è accaduto. Tutto si rammenta con difficoltà rappresentando solo ombre impalpabili, fra verosimiglianza e finzione. L'infanzia è vissuta e alcuni attimi sono fotografie indelebili proiettate nello schermo dell'esistenza senza via di scampo, pronte a rinascere in ogni attimo rappresentando dolore e felicità.
Dark Water, remake statunitense di un film giapponese del 2001 di Hideo Nakata, diretto in questa nuova versione da Walter Salles, è un film inquietante, oscuro, che non fa recriminare l'originale. Dahlia ha vissuto un'infanzia disturbata con una madre poco presente e il senso di abbandono. Oggi è separata, ha una figlia e la necessità di trovare una casa che sia a misura di reddito, fuori da Manhattan, in un quartiere industriale, privo di vita, con le finestre luminose ma serrate (questo è il vero orrore), per continuare la vita famigliare lontana dal marito. L'incubo arriva, e arriva dalla casa, dai muri, dal soffitto. E' un incubo nero come l'acqua che proviene dai tetti.
Salles guarda dall'alto, osserva, usa camere all'interno degli ascensori e si perde nello scrutare dal superiore i protagonisti, in una visione distorta di chi vive la propria passione personale. Si immerge nel non colore, nella percezione della freddezza (la vista della industrialità dei palazzi gelidi e inerti che la bambina osserva al momento della visita della casa è emblematica), nel nulla, nel senso della drammatica quotidianità. Poco esiste, tutto è fermo e si muove nell'inconscio, e Jennifer Connelly, perfetta protagonista con le sue rughe meravigliose, non pensa e si immola per il significato ultimo della luce del giorno. Ora nero. Ora bianco.