A Wrinkle in Time - in italiano Nelle pieghe del tempo - fu pubblicato nel 1962 ed è il primo di una serie di otto romanzi in cui le avventure dell'adolescente Meg Murry fondono fantasy, science fiction e formule matematiche, alla ricerca di verità profonde sull'interiorità e sui rapporti familiari da una capo all'altro dell'universo. Come tanti altri classici, a lungo quella di Meg e dei suoi compagni di viaggio è stata considerata infilmabile (anche se c'è stato un tentativo con un TV movie piuttosto trascurabile nel 2003); oggi che la tecnologia permette di rendere giustizia alla fantasia di L'Engle in maniera generosa e sfavillante, è sempre mamma Disney a portare sul grande schermo quest'avventura che sposa l'eterna lotta tra il bene e il male con la fisica quantistica.
Reclutando Ava DuVernay a curare la regia del progetto Disney ha dato un contributo importante alla battaglia per la diversità e per la rappresentazione paritaria nell'industria cinematografica hollywoodiana, ma ha anche chiamato la regista e documentarista, autrice di di Selma - La strada per la libertà, Middle of Nowhere e di XIII emendamento, a misurarsi con una produzione gigantesca e in un ambito per lei assolutamente inedito come quello del blockbuster per ragazzi.
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Nel segno della diversità
Ci sarà ben stato qualcuno che, dal suo piccolo angolo di mondo, avrà protestato perché Meg Murry, nei libri di L'Engle, non è una ragazzina di colore ma caucasica, ma a noi, per questa volta, gli anatemi sul politically correct che sta mandando in rovina l'industry sono sfuggiti e questo ci pare un buon segno. Perché se in generale gli individui di sesso femminile si sono visti sempre inadeguatamente rappresentati dal cinema commerciale, per le donne di colore la situazione è stata ancora più desolante (anche Patty Jenkins ha dovuto rispondere della scarsa varietà razziale del suo Wonder Woman). E così Nelle pieghe del tempo, tratto da un classico della narrativa per ragazzi d'impronta abbastanza moralista e conservatrice, rappresenta un passo significativo e importante negli sforzi per il progresso e la consapevolezza sociale dell'industria cinematografica.
Al centro un'eroina giovane ma complessa; intorno a lei, un cast in buona parte black e femminile, con le tre scintillanti Signore Cos'è, Chi e Quale interpretate da tre donne deliziose e di etnie diverse, Reese Witherspoon, Mindy Kaling e Oprah Winfrey; una coppia interraziale (la mamma è Gugu Mbatha-Raw, il babbo Chris Pine) a dare i natali alla protagonista e in generale una rappresentazione della popolazione attenta a rispecchiare l'effettiva diversità degli Stati Uniti contemporanei.
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Meg Murry, una di noi
Ma l'elemento in cui il film di Ava DuVernay trova la maggiore risonanza ed efficacia è il personaggio di Meg, convincente e autentico nella caratterizzazione e interpretato con grinta e sensibilità da Reid, incredibilmente matura per la sua età (ma il suo debutto nel business risale a quando aveva tre anni). Meg è una ragazzina come ne abbiamo viste tante, e come molte di noi sono state: timida, ostile, solitaria, un pesce fuor d'acqua in un corpo che cresce e cambia e in un mondo in cui non si rispecchia. Certamente non un personaggio principale che si sia visto spesso al cuore di un blockbuster, e abbastanza credibile e ben scritto da rendere affascinante il suo percorso, e a rendere convincenti i momenti del film ad alto tasso di pathos e a basso tasso di di CGI.
Perché il rutilante, grandioso universo fantasy che ruota intorno a Meg funziona meno bene di lei. In qualche caso, molto meno bene. E l'emblema di un'esagerazione post-produttiva fuori luogo è, duole dirlo, proprio lei, la gigantesca Signora Quale che sciorina perle di saggezza che a Oprah riescono benissimo senza bisogno di torreggiare sul prossimo o di esibire sopracciglia glitterate.
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Luci e ombre
Tra dimensioni gargantuesce e improbabili trasformazioni, le tre Signore, forze angeliche dell'universo che assistono Meg e suo fratello, sono presenze invadenti che rischiano di distrarre dall'essenziale e autentica potenza del film: Meg. Dal punto di vista della complessità narrativa Nelle pieghe del tempo non ha molto da offrire a parte la riproposizione del topos del viaggio e la contrapposizione manichea tra bene e male, tradizionalmente rappresentati come luce e oscurità, senza che il male (una non meglio identificata potentissima entità distruttrice, più chiassosa ma molto meno inquietante del Nulla de La storia infinita) faccia mai minimamente paura.
Ma il vero problema, se tale vogliamo definirlo, della sceneggiatura di Nelle pieghe del tempo è probabilmente più semplice e basilare, ed è nell'imperdonabile trascuratezza dell'anima scientifico-matematica della storia. Meg Murry è stata per decenni l'icona delle bambine e ragazze appassionate di discipline scientifiche in barba agli stereotipi onnipresenti e paralizzanti; i suoi genitori sono famosi scienziati, lei stessa è un piccolo fenomeno nel calcolo; infine, all'origine della sparizione di Mr. Murry e alla base della possibilità di viaggiare nello spazio c'è un principio matematico che nel film si riduce a vaghi cenni al "tesseratto" che Meg deve imparare a controllare. Un migliore sviluppo di questi elementi - ai danni, magari, di qualche fiore canterino o di un'altra sterile visione mistica - avrebbe reso la storia più affascinante anche per un pubblico adulto.
Movieplayer.it
2.5/5