Nella rete dell'orfana
L'horror e l'infanzia condividono da sempre il tema del mistero e dell'insondabilità della coscienza e per questo probabilmente rappresentano un binomio ricco e proficuo. Connubio che ha generato grandissime pellicole, quanto scentrati epigoni. Se il sottogenere si è sempre alimentato massicciamente del tema demoniaco producendo classici come L'esorcista, Rosemary's Baby e Il presagio, meno frequentemente è stata esplorata la deriva psicologica come nel caso di Orphan che, in analogia con il recente Joshua, allontana il soprannaturale per inscenare un conflitto intrafamiliare, narrativamente costruito sul mistero e la psiche.
La vicenda mette al centro il tema dell'adozione e il desiderio di maternità di Kate (Vera Farmiga, abile nel tratteggiare un personaggio facilmente a rischio di cliché) una donna dominata dall'ansia per un passato burrascoso e profondamente infelice per aver perso il suo terzo figlio durante il travaglio. Kate e suo marito John (Peter Sarsgaard in versione particolarmente insonnolito, dal ciglio intenso) decidono di recarsi a un orfanotrofio dove rimangono colpiti da una bambina
di origine russa, molto arguta e dal fare elegante. Decisi a farla diventare parte della propria famiglia, Kate e John scoprono ben presto il carattere particolare di Esther (l'inquietante undicenne Isabelle Fuhrman). Ma mentre John risulta affascinato dalla sua peculiare personalità, la madre sembra preoccuparsi della sua tendenza al manipolazione psicologica e del rapporto conflittuale con la sorellastra Max (sordomuta) e il fratellastro Daniel. Progressivamente la natura malvagia di Esther esce alla scoperto ma l'unica a sospettare di lei rimane Kate, costretta a indagare sul suo passato, nel vuoto di chi intorno sottostima le sue preoccupazioni. Nonostante la distanza evocata dai modelli sovrannaturali, Orphan sembra pagare un po' l'ansia di Jaume Collet-Serra (già regista di La maschera cera) di scrollarsi di dosso il plot e l'atmosfera da thriller psicologico per deviare su un horror di deriva quasi slasher, in piena adesione ai meccanismi più collaudati del genere. Il tratteggio infatti non è dei più fini e il dramma familiare è narrato attraverso una serie di simbolismi e di schematismi al limite del didascalismo: dall'atmosfera che caratterizza il primo incontro tra la famiglia Coleman e Esther, all'affiorare dei primi contrasti, fino al classico isolamento in cui finisce Kate, costretta a fronteggiare l'omertà dei suoi figli (imposta dall'aggressività e dai ricatti di Esther) all'ottusità di suo marito e perfino della sua analista, figura messa un po' li solo per fornire enfasi alla solitudine della protagonista. Dove invece Orphan mostra uno sguardo personale e insistito è in questa volontà di sporcarsi le mani, mettendo in mostra le azioni efferate della piccola "demone", capace non solo di soggiogare psicologicamente, ma anche di uccidere a martellate una donna o di rompersi volontariamente il braccio nella morsa per far incolpare Kate. L'insistenza su tali pratiche fornisce benzina al verbo horror, esaltato dal contrasto tra l'innocenza anagrafica di Esther e la sua indole sanguinolenta. Uno shock visivo costruito sull'erosione delle aspettative più convenzionali, morigerato comunque dalle rivelazioni che caratterizzano il finale. Da buona tradizione del genere il film ha scatenato polemiche suscitando il disappunto delle associazioni pro-adozione, che come tante associazioni mancano di equilibrio e senso dell'umorismo. Difficile infatti leggere In Orphan una presa di posizione specifica sul tema, che è a tutti gli effetti solo un escamotage narrativo utilizzato per giustificare il plot. Non c'è difatti nessun interesse nel mettere in campo riflessione di chissà quale portata, anzi una certa assenza sotto il profilo contenutistico rappresenta piuttosto un limite per un film particolarmente avaro di sottotesti espliciti o involontari e che si limita a soffermarsi sulla percezione familiare di un nuovo componente e sulle dinamiche psicologiche che vanno ad instaurarsi.