Nell'attesa di morire
La legge non è affatto uguale per tutti. Ne sa qualcosa Mumia Abu-Jamal, attivista di colore diventato vittima-simbolo di un'America razzista e ipocrita, incastrato da un sistema corrotto che gli ha negato la libertà per un capriccio, condannandolo ingiustamente a morte. Il caso Mumia ha sollevato negli anni una mobilitazione internazionale senza precedenti contro un processo sommario che si è svolto in violazione di ogni diritto, contro l'atrocità della pena capitale (ancora più assurda quando inflitta a un innocente) e contro un intero sistema che continua a perpetrare ingiustizie nei confronti delle minoranze. A guidarci negli spazi angusti dell'esistenza quotidiana di Mumia e nel mondo esterno dei soprusi è William Francome, nato a Londra il 9 dicembre 1981, lo stesso giorno in cui l'ex membro delle Black Panthers veniva arrestato, con l'accusa di aver ucciso a sangue freddo un agente di polizia di Philadelphia. Un uomo bianco, della media borghesia, trasferitosi in tenera età in terra americana, decide quindi di incontrare chi, durante tutta la sua vita, ha vissuto nella cella di in carcere, senza mai smettere però di far sentire quella che è stata definita "la voce di chi non ha voce".
Tutto ha origine quindi a Philadelphia, la "città della giustizia e dell'amore fraterno" che promuove le divisioni razziali, la città dei paradossi, che può contare su due pugili di colore campioni del mondo, e che poi dedica una statua ad un eroe fittizio, ma simbolo del sogno americano, come Rocky Balboa. La storia di Mumia Abu-Jamal si consuma proprio su questo terreno: la sua vicenda rappresentava una seria minaccia nei confronti di quel sogno e l'accanimento contro un uomo nero, giornalista indipendente, megafono discreto di un popolo di invisibili non può essere spiegato altrimenti. Per Francome, aiutato dal regista Marc Evans, è fin troppo facile smontare le tesi dell'accusa di questo caso, paradigmatico del malfunzionamento della società americana, subdolamente costruite a tavolino per mettere a tacere un personaggio scomodo. E in questo il documentario Tutta la mia vita in prigione risulta sicuramente (ma anche giustamente, terremmo a sottolineare) di parte, chiamando in causa i terribili accusatori solo per riportarne lo squallore delle loro dichiarazioni e beatificando un personaggio complesso e interessante come Mumia, che però nel film non esce fuori completamente, resta inconoscibile, un passo in là dalla nostra capacità di comprensione, nonostante quello che venga detto di lui conquisti la nostra ammirazione e provochi un enorme sdegno verso un sistema giudiziario così compromesso.
Perché il documentario di Evans parte da un caso emblematico per lanciarsi in una rapida panoramica delle grandi ingiustizie d'America di matrice razzista: dal massacro della Move (organizzazione politica afroamericana di casa a Philadelphia negli anni 70) alle angherie del carcere di Abu Ghraib, dall'emarginazione dei cittadini di colori in ogni ambito della vita sociale fino alla totale indifferenza del governo di fronte al disastro Katrina. Voci, immagini, ricordi si incrociano per meditare sulla prepotenza dei potenti che distruggono qualsiasi ipotesi di parità dei diritti. Molte figure importanti della controcultura americana si susseguono sullo schermo, un fiume di parole per riportare a galla la verità dietro i torti. Il caso Mumia finsce così con l'essere inevitabilmente politicizzato e l'uomo condannato a morte, senza prove reali, risulta, a conti fatti, prigioniero politico. D'altronde nell'aula di tribunale dove si è consumato il processo-farsa una black panther si è trovata ad affrontare un giudice forcaiolo che ha invitato la giuria a "friggere il negro". In una società in cui è radicata la cultura del razzismo e del reciproco sospetto qualcuno potrebbe non farci neppure caso.
Caratterizzato da interessanti interventi grafici che forniscono alla pellicola un certo ritmo spezzando la monotonia delle interviste e attenuando la colpevole vergogna stimolata dall'esibizione di scatti fotografici di famosi abusi, Tutta la mia vita in prigione perde spesso di vista quello che si presumerebbe essere il cuore del film, l'uomo e la sua voce, per procedere ad una stesura fine a sé stessa di una lunga lista di ingiustizie di questa società americana sempre più marcia. Un documentario troppo parlato, noiosamente didascalico, che si coccola il suo protagonista senza però coglierne l'essenza, riducendolo un po' troppo semplicisticamente a simbolo. Certo gli autori si sono scontrati con la cosiddetta Legge Mumia del 1996, che vieta ai detenuti condannati a morte di essere ripresi o fotografati, ma le difficoltà nel descrivere il personaggio vanno imputate soprattutto ad un'impostazione un po' troppo pretenziosa. Resta in noi l'eco della voce che Mumia continua a far sentire dalla sua prigione, anche se i brani scelti per il film si limitano a raccontarne l'inquietudine: "aspettare per il resto della vita di morire, in una stanza grande quanto un bagno", questo l'inferno per Mumia Abu-Jamal.