Al termine di Napoleon, prima dello scorrimento dei titoli di coda, un cartello ci ricorda che nell'arco di vent'anni le guerre napoleoniche ebbero un bilancio di tre milioni di vittime. È l'eredità di sangue di quell'epoca che, al passaggio fra diciottesimo e diciannovesimo secolo, avrebbe visto la scena politica europea dominata dalla presenza dirompente di Napoleone Bonaparte: prima il brillante stratega della campagna d'Italia contro l'esercito austriaco, poi l'autoproclamato Console del colpo di Stato del 18 brumaio, infine l'Imperatore artefice di un irresistibile culto di se stesso, fino alla 'mitologica' disfatta di Waterloo. Una sensazionale parabola di ascesa, splendore e caduta - con l'effimero tentativo di riscossa dei "cento giorni" - condensata dal veterano Ridley Scott nel suo nuovo kolossal: attualmente nell'arco di due ore e mezza di durata, destinate ad espandersi a quattro ore e dieci minuti nel director's cut che dovrebbe approdare in seguito su Apple TV+.
E ovviamente dal regista de Il gladiatore e Le crociate, giusto per rimanere nell'ambito (fanta)storico, non stupisce che le sequenze più memorabili del film corrispondano alle sontuose rievocazioni della battaglia di Austerlitz, apoteosi delle glorie militari dell'Imperatore corso, e della battaglia di Waterloo, catastrofe per antonomasia e ultimo ruggito di Napoleone prima del "tristo esiglio" a Sant'Elena. Sono le vette di un'opera ambiziosa e sbilanciata, un po' come il suo protagonista: due momenti in cui il film si ammanta di un respiro epico elevato al massimo grado dalla messa in scena di Ridley Scott, regista in grado di coniugare una spettacolarità dal sapore classico ai prodigi tecnici del cinema contemporaneo. Ma le battaglie di Austerlitz e di Waterloo fungono pure da specchio dell'approccio adottato dal cineasta britannico nell'accostarsi a una figura tanto grandiosa e complessa: un approccio in cui l'orrore del campo di battaglia è fagocitato dall'enfasi e dal senso di meraviglia, e in cui i tre milioni di morti di cui sopra restano una semplice nota a piè di pagina nell'epopea dell'uomo che volle farsi Imperatore.
L'ambiguo (anti)eroe di Ridley Scott e Joaquin Phoenix
E a tal proposito, chi è davvero il Napoleone di Ridley Scott, affidato all'incarnazione sfuggente e vagamente ombrosa di Joaquin Phoenix? È un interrogativo alquanto ostico, che rischia di non trovare risposta neppure negli oltre centocinquanta minuti della versione appena distribuita nelle sale. Perché, in attesa che i posteri (leggi: i futuri spettatori dell'edizione integrale) emettano "l'ardua sentenza", il Napoleon oggi sul grande schermo appare costantemente in bilico fra due tendenze opposte: una tiepida intenzione di rappresentare ambiguità e lati oscuri dell'essere umano e la fascinazione inesorabile nei confronti del mito di Napoleone e del segreto della fulminea scalata al potere dell'"uom fatale". È una dicotomia che la sceneggiatura di David Scarpa, alla seconda collaborazione con Scott dopo Tutti i soldi del mondo, non riesce (o non vuole) risolvere del tutto, a costo di proporre un ritratto talvolta 'appannato' del personaggio in questione, forse non abbastanza definito per indurre gli spettatori a un'autentica reazione emotiva.
Si prenda ad esempio un episodio della prima fase della carriera militare di Bonaparte, mostrato mentre ordina imperturbabile ai suoi soldati di aprire il fuoco sulla folla di manifestanti dell'insurrezione del 5 ottobre 1795: un breve saggio della cinica durezza del generale francese, lasciato tuttavia come un caso isolato, senza più echi, da lì in poi, nel resto del racconto. In meno di un lustro, Napoleone rovescerà il Direttorio per acquisire un'autorità sempre più vasta sullo Stato francese: una necessaria misura per ripristinare l'ordine e far uscire il paese dalla crisi o l'atto di forza di un dittatore in preda a un crescente delirio di onnipotenza? E in ogni caso, quali motivazioni e quali sentimenti sono alla base delle azioni del Napoleone di Joaquin Phoenix e di Ridley Scott? È un altro quesito su cui il film sceglie di non fornire un'interpretazione univoca; così come non è univoca la prospettiva offerta rispetto al legame fra Bonaparte e la sua prima consorte, la Joséphine di Vanessa Kirby, andata in sposa al generale dopo essere scampata alle prigioni di Robespierre, ma allontanata a causa dell'impossibilità di dare alla luce un erede dell'Imperatore.
Napoleon, la recensione: il kolossal epico (e grottesco) di Ridley Scott
La fuga e la vittoria, la reggia e il tristo esiglio
Quello fra Napoleone e Joséphine è un grande amore osteggiato dalla ragion di Stato o una relazione avvelenata alla radice dall'egoismo divorante del sovrano di Francia? Il loro ménage viene dipinto con un amalgama fra passione, tenerezza e scintille di brutalità (la drammatica scena dell'annullamento delle nozze), per proseguire poi nel segno di un affettuoso rimpianto. Ma nel frattempo gli ingranaggi della Storia si muovono inesorabili, la povera Joséphine si spegne mestamente fuori scena, mentre Napoleone fronteggia la propria sorte a Waterloo: qualcuno ha parlato di demitizzazione del protagonista, ma è nella sua ultima battaglia, nella sconfitta senza ritorno, che Bonaparte si staglia nella propria dimensione eroica e inarrivabile. È una dimensione resa ancor più evidente dal contrasto fra Napoleone e i suoi antagonisti: l'infido e mellifluo Zar Alessandro I del giovane Edouard Philipponnat o il tenebroso Duca di Wellington di Rupert Everett, dallo sguardo torvo e con tanto di mantello stregonesco.
Emblematico, in tal senso, è il faccia a faccia conclusivo (una delle varie concessioni rispetto alla realtà storica) fra Wellington e Napoleone poco dopo la battaglia di Waterloo e la resa del decaduto Imperatore, condannato a concludere i suoi giorni nella "sì breve sponda" di Sant'Elena. Su una nave da guerra della Marina Reale Britannica, in una sala dal lucente pavimento a scacchiera, Napoleone e la sua nemesi suggellano l'epilogo della loro partita; e nonostante tutto, Bonaparte è ancora ammantato di un carisma ultraterreno, tale da irretire perfino i ragazzi inglesi a bordo e da imporre una sorta di superiorità morale sul generale che era stato in grado di piegarlo sul campo. È il significativo epilogo di un film affascinante ed imperfetto, che pende a più riprese in direzione dell'agiografia e si lascia soggiogare (suo malgrado?) dalla grandeur di un personaggio di cui però non sa restituire appieno l'umanità racchiusa dietro l'icona.