E' un film prezioso, oltre che portatore di un equilibrio raro, questo E ora dove andiamo?. L'opera seconda di Nadine Labaki (già regista di Caramel), vincitrice del Premio del Pubblico al Toronto International Film Festival e presentata a Cannes nella sezione Un certain regard, riesce ad affrontare un tema di sconvolgente importanza e attualità (i conflitti per motivi religiosi) con uno sguardo divertito e amaro insieme, che coniuga in modo perfetto un tono quasi fiabesco con un fondo di disillusione e realismo, mescolando disinvoltamente dramma, commedia e musical. Un'opera importante per come riesce ad essere accessibile e popolare ma al tempo stesso assolutamente pregnante nei temi trattati, e per come osa inanellare in modo naturale la drammatica sequenza di una morte e un'irresistibile numero coreografico, senza togliere forza cinematografica, o capacità di coinvolgimento emotivo, a nessuna delle due.
Di questo suo secondo film, e dei temi da esso trattati, ha parlato la stessa regista libanese nella conferenza stampa di presentazione, tenutasi in un hotel del centro di Roma alla presenza di un nutrito numero di giornalisti.
Anche in Caramel, il suo precedente film, c'era un mix di commedia e politica. Da dove deriva questa sua passione per la mescolanza dei generi? In questo film, tra l'altro, troviamo anche il musical... Nadine Labaki: Io non penso mai prima al perché faccio le cose che faccio, cerco di analizzarne i motivi solo dopo, e a volte riesco così a capire alcune cose di me. Da ragazzini noi siamo cresciuti in Libano tra guerre continue, e la maggior parte del tempo eravamo costretti a rimanere a casa, facendo una vita abbastanza noiosa. Fin da subito io ho avuto un rapporto speciale con televisione, questa mi ha aiutato a capire che potevano esistere realtà diverse dalla mia: attraverso la tv potevo sognare un posto migliore. Ho capito presto che per poter creare realtà diverse era necessario diventare regista, questa è stata una decisione che ho preso fin da piccola: quando faccio un film io sogno un mondo diverso, ed è questo il senso del mio mescolare generi come la commedia, il ballo e il dramma. La risata e l'umorismo servono per affrontare una realtà come la nostra, questi conflitti sono così assurdi che non puoi fare a meno di prenderli in questo modo: ridere serve anche ad avviare un processo di guarigione, ad imparare dai nostri errori. Conosco tante donne che hanno perso i loro cari, che sono a lutto eppure continuano a mantenere il senso dell'umorismo, ad andare avanti col sorriso: dobbiamo imparare da loro. L'approccio che ho adottato in questo film non è realistico, non c'è un'ambientazione in un luogo o un periodo specifici: il conflitto mostrato avrebbe potuto verificarsi tra chiunque, anche tra due partiti o due squadre di calcio, è un conflitto che riguarda semplicemente gli esseri umani. L'aspetto musical, poi, mi ha consentito di aggiungere il tono fiabesco ad un film con un tema così importante.
Come mai ha scelto di aprire il film con quella danza delle donne?
Da quando ha vinto il premio a Toronto, il film viene dato tra i favoriti per l'Oscar per il miglior film straniero. Come vive questo periodo un po' rutilante? C'è più pressione o eccitazione?
Da noi non c'è una vera industria cinematografica, quindi è molto difficile fare un film, è come scendere su un campo di battaglia; quando si hanno certi riconoscimenti, ti si aprono delle porte, e questa è una sensazione travolgente. Ci siamo trovati tra i cinque possibili candidati a ricevere una nomination per gli Oscar, e questa è una cosa molto importante pensando che il film è realizzato in un paese come il nostro: questa improvvisa esposizione ci permette di sognare di poter avere, in futuro, un'industria cinematografica in Libano.
Come già in Caramel, qui vediamo delle donne che portano un'energia positiva. Secondo lei fino a che punto possono arrivare le donne per ottenere un obiettivo?
Sinceramente non ho una risposta definitiva a questa domanda. L'intento del film non era dire che le donne porteranno sicuramente la pace; io volevo piuttosto parlare della mia, della nostra responsabilità nelle cose che accadono. Io questa responsabilità la sento: le guerre e i conflitti non sono solo colpa degli uomini, visto che sono conflitti che esistono in ogni parte del mondo, spesso dettati dalla paura. E allora mi sono chiesta, come donna e come madre, come potevo provare a fermare tutto questo, come potevo almeno dire a me stessa di averci provato. Il film parla di come una donna e una madre può fronteggiare l'assurdità dei conflitti; nel nostro paese abbiamo visto uomini che un attimo prima vivevano fianco a fianco, mangiavano lo stesso pane e respiravano la stessa aria, prendere le armi l'uno contro l'altro. A questa assurdità si deve reagire.
Le donne hanno ottenuto molto in questi movimenti, e ne sono molto orgogliosa. Il film è stato scritto prima del loro inizio, ma mi piace pensare di aver dato ad essi un contributo, a modo mio. Tuttavia, sono un po' scettica per come varrà gestito ciò che è stato ottenuto; il conflitto tra cristiani e musulmani, per esempio, non si è mai fermato, e continuiamo a chiederci quando finirà.
Lei ha visto il film di Denis Villeneuve La donna che canta? Che reazioni le ha suscitato?
Mi è piaciuto molto quel film. Un punto di contatto col mio film è il fatto che anche lì non viene detto qual è il paese in cui la storia si svolge; capisco il motivo di questa scelta. L'argomento della guerra è molto delicato, così come la nostra posizione rispetto ad esso: spesso, quando si parla di conflitti religiosi, tendiamo a categorizzare in modo eccessivo, a ricollegarli ad una realtà specifica, a un paese specifico e ad eventi ben precisi; ma così facendo, a volte non si riesce a dire con chiarezza le cose che si vorrebbero dire. Posso capire, qundi, il tentativo di rendere certi temi più universali.
Il film è già uscito nel suo paese? Qual è stata l'accoglienza da parte delle comunità cristiana e musulmana?
Si, il film è uscito in Libano ed è stato un grande successo, un film che si può dire addirittura abbia fatto la storia del Libano. Nessun'altra pellicola, da noi, ha mai avuto gli stessi risultati: è come un fenomeno, è diventato in un certo senso il nostro film, il film di una nazione. Per la corsa agli Oscar, tutti ora fanno il tifo, e addirittura pregano perché il film raggiunga il risultato. Nel nostro paese abbiamo non solo cristiani e musulmani, ma addirittura 18 religioni diverse: ne abbiamo avuto abbastanza di conflitti, vogliamo vivere in pace, è un bisogno che tutti sentiamo, indistintamente. Questo è il nostro film, quello di chi vuole la fine dei conflitti.
In Libano molti parlano francese o inglese, ma lei ha scelto di girare il film in arabo. Perché?
Un ipotetico approdo a Hollywood, per lei, è un obiettivo o piuttosto qualcosa da evitare?
Se Hollywood mi permettesse di fare le cose che voglio fare, perché no. Di quell'industria, però, mi spaventa il fatto di non avere l'ultima parola sul prodotto finale. Comunque non è questo il mio obiettivo: non mi interessa girare film più ampi o grandiosi, il mio scopo nei miei prossimi film è piuttosto fare esperimenti, flirtare con la realtà. Quello che ho sempre cercato di fare nel mio cinema è realizzare qualche cosa di fedele alla realtà, per poter quantomeno tentare di cambiarla; per far questo, le persone devono identificarsi con quello che vedono nel film, questo deve avere un impatto su quello che vivono nella loro vita. Io voglio che il cinema diventi una nuova arma, non violenta, per cambiare le cose. Forse è ingenuo pensarla così, ma voglio pensare di averci almeno provato.
Lei sente una qualche affinità col regista palestinese Elia Suleiman? Anche nei suoi film c'è una sorta di realismo magico, la concessione al potere dell'immaginazione come risposta ai conflitti.