Tu non devi mai sorridere così. Non devi mai sorridere così a nessuno.
La preghiera di Gustav von Aschenbach, seguita da un sommesso "Ti amo", viene pronunciata dal protagonista di Morte a Venezia in una completa solitudine. Seduto in disparte nel giardino del Grand Hôtel des Bains, Aschenbach rivolge queste parole a Tadzio, che però non è lì per ascoltarle. Luchino Visconti inquadra la figura tremolante di Aschenbach, immerso nella penombra, e zooma lentamente sul volto di Dirk Bogarde; e quel volto, in preda a un'eccitata inquietudine, è puntato dritto verso la macchina da presa, in un appello disperato allo spettatore, inerme testimone dei patimenti dell'uomo. Uno stacco di montaggio e al viso di Aschenbach si sostituisce quello limpido ma imperscrutabile di Tadzio, illuminato dalle candele di una chiesa, come fosse un'icona.
Quel luminoso oggetto del desiderio
L'immagine di Tadzio chino di fronte all'altare, lo scopriremo subito dopo, è riprodotta attraverso il punto di vista di Aschenbach: l'ennesimo esempio di una ripresa in soggettiva all'interno di un racconto la cui focalizzazione corrisponde quasi sempre allo sguardo del suo protagonista. Perché Morte a Venezia è innanzitutto una storia sulla contemplazione, sull'atto di desiderare, e Luchino Visconti ci offre una doppia prospettiva sul desiderio: la bellezza sublime, quasi sacra, che si manifesta agli occhi di Aschenbach, e il volto di Dirk Bogarde, che fa da specchio al suo segreto tormento. Tale meccanismo si ripete infatti già nella scena successiva, durante il pedinamento del giovanissimo Tadzio messo in atto da Aschenbach fra le calli veneziane.
È la scelta con cui il regista milanese traduce sullo schermo il breve romanzo omonimo pubblicato nel 1912 da Thomas Mann: una trasposizione difficilissima, sulla carta, considerando l'esigua lunghezza dell'opera di Mann (a fronte dei centotrenta minuti della pellicola) e il fatto che il dramma di Aschenbach sia tutto interiore, che il suo desiderio rimanga sempre "in potenza". Ma il film di Visconti, distribuito nelle sale italiane il 5 marzo 1971 e proiettato due mesi dopo in concorso al Festival di Cannes, riesce a far emergere questo dramma con intensità sconvolgente: un'intensità che brucia interamente nel cuore di Aschenbach e, di riflesso, nei tratti di un Dirk Bogarde forse mai così straordinario.
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Il dissidio di Aschenbach
Fra i massimi interpreti del cinema britannico, scelto spesso da registi quali Anthony Asquith e Joseph Losey per incarnare antieroi complessi ed ambigui, Dirk Bogarde era già stato diretto da Luchino Visconti nel 1969 nel primo capolavoro della sua "trilogia tedesca", La caduta degli dei, dove vestiva i panni dell'ambizioso Friedrich Bruckmann, impegnato in una spregiudicata scalata sociale nella Germania agli albori del nazismo. Con il Gustav von Aschenbach di Morte a Venezia, compositore di mezza età ossessionato dalla grazia efebica di un adolescente polacco di nome Tadzio (il quindicenne svedese Björn Andrésen), Bogarde darà vita a una delle più grandi prove della propria carriera, facendo leva sulla silenziosa espressività di un uomo alle prese con un dissidio lacerante.
Perché nella compostezza sempre più nervosa di Aschenbach, nella sofferenza trattenuta di chi pretende di mantenere il pieno controllo di sé nonostante un fuoco gli stia divorando le viscere ("Tu sei l'uomo della prudenza, dei pudori, delle ripugnanze", è il rimprovero che risuona nella sua mente), l'attore inglese delinea una rappresentazione vivida e potente del personaggio di Thomas Mann, costretto a rinunciare alla sicurezza dell'equilibrio per abbandonarsi alla vertigine delle pulsioni e dei sentimenti. E lì, proteso sull'orlo dell'abisso, Aschenbach accoglierà i fugaci sorrisi di Tadzio, e oserà accarezzare la chioma bionda del ragazzo - benché soltanto nella sua fantasia - con la mano tremante di chi sta sfiorando per la prima e unica volta l'oggetto del proprio desiderio.
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La tragedia di un uomo ridicolo
Desiderare e morire: un dualismo che la cinepresa di Visconti ci restituisce alternando l'eleganza languida e aristocratica di Venezia, la lussuosità mitteleuropea del Grand Hôtel des Bains, le morbide luci della fotografia di Pasqualino De Santis con gli scorci di una città, all'opposto, squallida, caotica e purulenta. In questa seconda Venezia, un sordido lazzaretto a cielo aperto, si consuma l'ultimo pedinamento di Tadzio da parte di Aschenbach, che finisce riverso accanto a un pozzo, come a prefigurare il destino che lo attende da lì a poche ore: quell'indimenticabile epilogo su una spiaggia del Lido, con Aschenbach intento a fissare Tadzio mentre un altro ragazzo, per gioco, si avvinghia a lui e lo trascina nella sabbia, nella proiezione di un atto erotico vagheggiato ma irrealizzabile.
Tadzio, del resto, non è un personaggio autentico e compiuto, ma un puro oggetto del desiderio, e pertanto si sottrarrà anche a quell'abbraccio per allontanarsi da solo verso il mare, avvolto in un alone di luce dorata e seguito dallo sguardo trasognato di Aschenbach, nei preziosi istanti di estasi un attimo prima che la morte abbia il sopravvento. Ma alla trascendenza quasi divina di questa immagine, Visconti risponde con il controcampo tragicamente ironico di un Aschenbach imbellettato, con il trucco che è già la maschera ridicola di un cadavere e quel rivolo di tinta per capelli che gli scivola giù sulle guance. Un ritratto grottesco e patetico, ma proprio per questo profondamente, dolorosamente umano.