L'Italia cala il tris d'assi! Alla 68esima edizione del Festival di Cannes, in calendario dal 13 al 28 maggio, saranno infatti in concorso i tre registi probabilmente più stimati - perlomeno da critici e cinefili - del cinema italiano contemporaneo, parlando di quelli appartenenti alle generazioni nate fra gli anni Cinquanta e l'inizio dei Settanta: in ordine di età, per l'appunto, Nanni Moretti, Matteo Garrone e Paolo Sorrentino.
L'annuncio della partecipazione di Moretti, Garrone e Sorrentino al Festival cinematografico più prestigioso del mondo (un Festival che, in momenti diversi, ha contribuito ad allargare la popolarità di tutti e tre ben oltre i confini nazionali) ha suscitato grande attesa ed entusiasmo; e, al netto di inutili sciovinismi che con la settima arte hanno poco a che fare, è indubbia la soddisfazione nel constatare come il cinema italiano sia in grado di proporre titoli capaci di attirare l'attenzione di platee vastissime. Aspettando dunque che questi "tre moschettieri" incrocino le spade nell'agone festivaliero, ma soprattutto nella speranza che tutti e tre possano meritarsi gli applausi delle platee di Cannes, proviamo a tracciare un ritratto di ciascuno dei tre registi italiani in concorso al Festival: il loro stile, le loro carriere e i rispettivi nuovi film in procinto di contendersi la Palma d'Oro e gli altri trofei in palio, ma anche l'affetto degli spettatori...
"Io credo nelle persone, però non credo nella maggioranza delle persone": Nanni Moretti e l'importanza delle parole
"Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?": l'idiosincrasia elevata a principio di vita, la quieta nevrosi del quotidiano, sono fra i tratti distintivi del cinema di Nanni Moretti fin dalle origini. Nato a Brunico, in Trentino-Alto Adige, classe 1953, ma cresciuto a Roma, città alla quale è sempre stato legato, Nanni Moretti muove i primi passi nel cinema dividendosi fra l'attività di attore (Padre padrone dei fratelli Taviani) e quella di regista, e nel 1976 debutta dietro la macchina da presa con Io sono un autarchico, film che introduce al pubblico il suo alter ego cinematografico, Michele Apicella. È però nel 1978 con Ecce bombo, presentato in concorso al Festival di Cannes, che un Moretti appena ventiquattrenne si afferma come uno degli autori più originali ed innovativi del cinema nostrano. Indimenticabili, a partire da questo film, i tormentoni che scandiranno costantemente la sua filmografia, a partire dal celeberrimo "Faccio cose, vedo gente..." allo sfogo rabbioso di Sogni d'oro: "Tutti parlate di cinema, tutti! Parlo mai di astrofisica io? Io non parlo di cose che non conosco!".
La spiccata autoironia, l'autobiografismo più o meno mascherato, il gusto per il paradosso e la battuta fulminante, la commistione fra reale ed onirico diventano gli elementi cardine della produzione di Moretti, spesso accostato non a torto a Woody Allen: dalla riflessione metacinematografica di Sogni d'oro, Leone d'Argento al Festival di Venezia 1981, a commedie cult come Bianca (1983), con l'esilarante sfuriata di Apicella sulla Sacher Torte ("Continuiamo così, facciamoci del male!"), e Palombella rossa (1989), analisi dello stato di salute della sinistra scandito dal motto "Le parole sono importanti!", passando per il più maturo e composto La messa è finita (1985), Orso d'Argento al Festival di Berlino, gli anni Ottanta consacrano Nanni Moretti come un cineasta di assoluto rilievo. Un prestigio che Cannes riconosce ufficialmente nel 1993, assegnandogli il premio per la miglior regia grazie a Caro diario, in cui la sovrapposizione fra il Moretti persona e il Moretti personaggio, a bordo della sua Vespa in una Roma estiva semideserta, ci consegna alcune delle sequenze e delle battute più memorabili del suo cinema ("Mi sa che mi troverò sempre d'accordo e a mio agio con una minoranza").
Leggi anche - Ma come parla? Le frasi e le scene culto del cinema di Nanni Moretti
Dopo un altro film prettamente autobiografico come Aprile (1998), da ricordare anche solo per l'accorata esortazione a Massimo D'Alema ("D'Alema, di' una cosa di sinistra!"), Nanni Moretti ottiene il suo maggiore trionfo a Cannes con La stanza del figlio, la dolorosa storia dell'elaborazione del lutto di un padre e degli altri componenti di una famiglia, ricompensato con la Palma d'Oro all'edizione del Festival del 2001. Sempre a Cannes saranno in concorso i suoi film successivi: Il caimano (2006), caustica - e per certi versi profetica - riflessione sull'Italia del berlusconismo, fra metacinema, politica e bilanci esistenziali; Habemus Papam (2011), divertente ritratto del senso di inadeguatezza del neo-eletto Pontefice Michel Piccoli; e il recentissimo Mia madre, appena uscito nelle sale italiane, in cui l'elemento più personale del racconto - la perdita di un genitore - si lega al mestiere del cinema, descritto anche come tentativo di rielaborare e comprendere una realtà confusa e sofferta. Al centro della scena, questa volta Moretti pone il personaggio di Margherita, interpretata da Margherita Buy, regista e madre di famiglia alle prese con un'intima crisi scatenata dalla malattia dell'anziana madre Ada (Giulia Lazzarini); le visite in ospedale e gli sforzi per portare a termine un film a sfondo sociale spingeranno Margherita a una difficile analisi di se stessa e del suo rapporto con gli altri.
"Non abbandonate mai i vostri sogni": Matteo Garrone e il lato grottesco della realtà
È anche grazie al sostegno di Nanni Moretti, che nel 1996 attribuì il Sacher d'Oro al suo cortometraggio Silhouette, se Matteo Garrone è oggi uno dei registi più apprezzati del panorama europeo. Nato a Roma nel 1968 e figlio del critico Nico Garrone, inizia a girare cortometraggi che raccoglierà poi, nel 1996, nel suo film d'esordio, Terra di mezzo, dedicato alla vita dei migranti in Italia; l'immigrazione e le difficoltà di integrazione sociale, temi molto cari a Garrone, saranno anche al centro di Ospiti (1998), mentre con il successivo Estate romana (2000) l'approccio semi-documentaristico cederà il posto ad uno stile più libero e surreale, a tratti quasi fantasmatico. È però nel 2002 che Matteo Garrone si impone definitivamente all'attenzione della critica, e proprio in virtù di una vetrina di primo piano quale il Festival di Cannes, che nella sezione Quinzaine des Réalisateurs propone L'imbalsamatore: un noir psicologico torbido e angosciante, costruito sui rapporti di sudditanza psicologica e di attrazioni incrociate che si instaurano fra il tassidermista nano Peppino Profeta (Ernesto Mahieux), legato ai traffici della Camorra, il giovane ed ingenuo Valerio (Valerio Foglia Manzillo), per il quale Peppino prova un desiderio omoerotico, e la sua fidanzata Deborah (Elisabetta Rocchetti).
Le relazioni personali come coacervo di istinti possessivi e torture psicologiche, l'inesorabile squallore del quotidiano, la meschinità alimentata dai miti del successo e da un'impossibile ricerca della perfezione si rivelano come gli aspetti centrali della poetica di Garrone, confermati anche in Primo amore (2004), storia di un amore perverso e malato. Ma è quattro anni più tardi con Gomorra, libero adattamento del fenomeno letterario firmato da Roberto Saviano, che Matteo Garrone si afferma all'improvviso fra i nomi di punta del cinema internazionale, conquistando il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes 2008 e gli European Film Award per miglior film, regia e sceneggiatura. Intrecciando diversi racconti paralleli che ruotano attorno al quartiere napoletano di Scampìa, Gomorra mette in scena il sottobosco criminale della Camorra, meccanismo tentacolare spogliato di qualunque alone da epica gangsteristica per essere rappresentato al contrario nei suoi aspetti più cupi e brutali, avvalendosi di un realismo estremo che passa anche per l'uso di attori non professionisti e, sul piano linguistico, di un dialetto strettissimo.
Forte del clamoroso successo critico e commerciale di Gomorra, Garrone aspetta ben quattro anni prima di tornare a Cannes con il suo film successivo, che gli vale per la seconda volta il Gran Premio della Giuria: Reality, ulteriore immersione nella vita dei quartieri popolari di Napoli. Con uno stile ancora più prepotentemente feroce e grottesco, Reality dipinge le miserie morali del pescivendolo Luciano (l'esordiente Aniello Arena) e della sua famiglia, per la quale la paventata partecipazione al Grande Fratello costituisce un sogno di affermazione sociale e finanziaria; un sogno che, tuttavia, si tramuterà per Luciano in ossessione ed incubo, fino a fargli perdere il contatto con la realtà (con una sequenza finale dal forte taglio onirico). Una materia narrativa totalmente diversa è invece quella dell'imminente Il racconto dei racconti, fastosa pellicola a episodi per la quale Matteo Garrone ha preso spunto da Lo cunto de li cunti, raccolta di fiabe in lingua napoletana pubblicata da Giambattista Basile nel 1636. A giudicare dalle immagini del trailer, un trait d'union con la produzione precedente di Garrone potrebbe essere individuato nella rilevanza del piano fantastico/onirico (qui esaltato in chiave magica e visionaria) e nell'inserimento di notazioni grottesche, ormai un carattere distintivo dell'immaginario garroniano.
"Io non volevo solo partecipare alle feste: volevo avere il potere di farle fallire": Paolo Sorrentino, fra decadenza e lirismo
Accostato spesso a Matteo Garrone, non solo per motivi anagrafici (sono nati a due anni di distanza) ma anche per le numerose analogie nello stile e nelle tematiche dei rispettivi film, Paolo Sorrentino oggi è conosciuto soprattutto come il regista che ha riportato l'Oscar in Italia dopo ben quindici anni. Napoletano, classe 1970, dopo aver firmato diversi cortometraggi e sceneggiature realizza il suo primo lungometraggio, L'uomo in più, nel 2001, con protagonista quel Toni Servillo che diventerà il suo attore feticcio. Il senso di inadeguatezza, di solitudine e di fallimento, rintracciabile già nell'opera d'esordio, caratterizzerà anche gli altri personaggi del cinema di Servillo, che conquista il consenso unanime della critica con il suo secondo film, Le conseguenze dell'amore, presentato in concorso al Festival di Cannes 2005 e ricompensato da una pioggia di riconoscimenti in patria: la parabola di Titta Di Girolamo (Servillo), contabile della Mafia in un hotel svizzero, il cui sentimento per la giovane Sofia (Olivia Magnani) lo spingerà ad una drastica decisione. Non suscita altrettanto entusiasmo, invece, l'amarissimo dramma L'amico di famiglia, portato in concorso a Cannes appena un anno più tardi.
Paolo Sorrentino torna una terza volta al Festival nel 2008 e, nella stessa edizione che lo vede in gara insieme a Matteo Garrone, si aggiudica il Premio della Giuria grazie ad un'opera che impone la sua fama a livello mondiale: Il Divo, ritratto tenebroso e straniante di Giulio Andreotti e del declino della DC alla vigilia di Tangentopoli. Lontanissimo dall'accademismo del biopic canonico, Il Divo, che vede protagonista uno straordinario Toni Servillo, porta in piena luce le virtù del cinema di Sorrentino: l'abilità nel fondere i registri del realismo e del visionario, della tragedia e della farsa, ed un controllo della messa in scena (le inquadrature, i piani sequenza, le musiche) che però non scivola mai nel virtuosismo gratuito. Il successo de Il Divo permette a Sorrentino di mettere in cantiere un film in lingua inglese con una coppia di star del cinema hollywoodiano: Sean Penn nel ruolo dell'ex divo del rock Cheyenne, di cui viene sottolineato ancora una volta il senso di estraneità rispetto al mondo circostante, e Frances McDormand in quello di sua moglie Jane. Presentato al Festival di Cannes 2011, This Must Be the Place (titolo che rende omaggio ai Talking Heads di David Byrne, presente con un cameo musicale) costituisce un altro capitolo importante nella carriera del regista napoletano.
Due anni dopo, sempre nello scenario di Cannes, viene proiettato La grande bellezza, affresco della Roma notturna e decadente dei salotti borghesi, osservata mediante lo sguardo freddo e impietoso del maturo scrittore Jep Gambardella (ancora un grande Servillo). Il responso è esplosivo: la critica paragona il film a La dolce vita di Federico Fellini, il pubblico accorre in massa nelle sale e, in poche settimane, trasforma La grande bellezza in uno dei più clamorosi eventi cinematografici del decennio. Magistrale per il coraggio con cui amalgama l'analisi della volgarità e dello squallore della società contemporanea con improvvise aperture liriche, sospese fra realtà, dimensione onirica e ricordo, La grande bellezza conquista anche gli spettatori di altri paesi, aggiudicandosi gli European Film Award per miglior film e regia, il Golden Globe, il BAFTA Award e, infine, il premio Oscar come miglior film straniero. Ora, per la sesta volta consecutiva, Sorrentino si prepara a tornare a Cannes con Youth - La giovinezza, altro bilancio esistenziale e riflessione sul trascorrere del tempo, affidata questa volta alla prospettiva di Fred Ballinger, anziano direttore d'orchestra che ha il volto del veterano Michael Caine. Ambientato nella cornice delle Alpi svizzere, e con un cast internazionale che include Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano e Jane Fonda, Youth - La giovinezza avrà l'arduo compito di sostenere le aspettative altissime nei confronti di un autore capace di suscitare fervidi entusiasmi, così come di polarizzare le opinioni di critica e pubblico.
Leggi anche: La recensione di Youth - La giovinezza di Paolo Sorrentino