Siamo binari consumati dal tempo. Poche le stazioni intermedie a cui fermarsi per assaporare un attimo, tentare una vittoria, afferrare la propria occasione prima che questa passi rapidamente davanti a un finestrino di una carrozza in partenza.
Come sottolineeremo in questa recensione di Miracle, il film di Lee Jang-hoon, vincitore del premio del pubblico alla ventiquattresima edizione del Far East Film Festival e al cinema dal 23 marzo 2023, ruota tutto attorno all'usura di binari e alla corsa inarrestabile di treni che non si fermano. Sono binari che si sostituiscono all'asfalto di strade che non esistono quelli che circondano la vita di Joon-Keyong; sono gradi di separazione per una quotidianità sempre di fretta e segnata da perdite, lacune e dolori, sorrisi e risvolti ironici, tutti frammenti di un'esistenza colta nell'eterna attesa di un treno che si fermi, permettendo a Joon-Keyong e ai suoi concittadini di respirare, rallentare, smettere di vivere in rincorsa.
Miracle: la trama
Basato su una storia vera e ambientato alla fine degli anni Ottanta nella provincia di North Gyeongsang, Miracle segue le vicende di Joon-Keyong, un campione di gare di matematica del liceo. Il ragazzo vive in un piccolo villaggio isolato dal mondo, attraversato da un unico binario ma privo di una stazione. Determinato a rompere la situazione di esclusione del proprio paese, Joon-Keyong decide di scrivere al presidente della Corea del Sud per chiedergli aiuto. A dargli una mano ci saranno due ragazze decise e determinate tanto quanto lui. Da una parte sua sorella, dall'altra la compagna di scuola pronta a divenire qualcosa di più.
Fiaba di umana semplicità
È una fiaba ancorata alla realtà, Miracle. Un attaccamento a una quotidianità spennellata da sogni e speranze, e intrisa di paure, fragilità e sensi di colpa indelebili. Ogni più piccola emozione viene così raccolta e restituita con una facilità disarmante, distaccandosi da una retorica melensa per affiancarsi a un'ironia che colpisce il proprio spettatore senza tanti giri di parole. Orfana di virtuosismi autoriali, si apre in Miracle un ponte diretto sull'interiorità di personaggi reali, psicologicamente tratteggiati con una tale decisione da risultare veri. Quelle sviluppate da Lee Jang-hoon sono esistenze alla seconda, e non solo perché prese in prestito da una biografia modellata in base allo strumento cinematografico che le racconta. Grazie a esse, si compie una totale eliminazione delle distanze tra uomini e donne sullo schermo, e quelli seduti al di là di esso. Un girotondo di anime che colgono, interiorizzano e condividono emozioni e pensieri mai censurati, ma espressi con la forza di uno sguardo, o di una scelta di ripresa.
Fotogrammi di un'umanità condivisa
Quelle di Lee Jang-hoon sono inquadrature parlanti: non urlano, non gridano, ma suggeriscono sottovoce emozioni e sensazioni, risate e commozioni, toccando delicatamente il cuore del proprio pubblico. Sviluppate in orizzontale, le sue riprese sono binari che corrono lungo un percorso che pare eterno, solo per rivelare l'eterogeneità di un cammino sempre diverso. Ma essere sviluppati in orizzontale permette anche a questi sguardi di immortalare in un solo battito di ciglia esistenze diverse raccolte nelle vesti di un'unica comunità. Nessuno è escluso; nessuno è dimenticato nel paese sperduto di North Gyeongsang. Nell'ampiezza di un'inquadratura scevra di elementi decorativi, ma interessata alla presenza umana, si redige un saggio antropologico ironico e commovente, sebbene debole nella sua portata più traumatica. I monologhi drammatici si protraggono infatti per un minutaggio troppo elevato, sgonfiando come un palloncino la carica emotiva a essi affidati lasciando che questa cada per terra senza librarsi per aria.
Guida alla rinascita
Punto nevralgico dello sviluppo della storia, il giovane Joon-Keyong si fa guida imprescindibile di un paese disperso, colmando con il proprio ingegno sia la mancanza di infrastrutture, che lacune famigliari scavate con la forza del rimorso e del rimpianto. Il volto del protagonista è una mappa da tracciare con una potenza espressiva giocata in sottrazione, e per questo ancora più abile a colpire a fondo il cuore dello spettatore. Un'impresa non più titanica, ma apparentemente semplice, soprattutto se a sorreggerla è un'interpretazione come quella offerta dall'attore Park Jeong-min. Con il suo sguardo innocente, e allo stesso tempo segnato dal passaggio di continui fantasmi del passato, il giovane interprete riesce a costruire un personaggio solido, credibile, a tratti tangibile. Un'operazione di imbastitura sostenuta da una regia che si fa complice, e mai ostacolo, nella messa in scena di personaggi talmente puri, credibili, in cui è estremamente facile immedesimarsi.
Il racconto dell'umile genio
In questo gioco di sofferenze rimosse e cuori pronti a battere di nuovo, un ruolo fondamentale viene svolto dalla cinepresa di Lee Jang-hoon. La sua è una macchina da presa perlopiù immobile, fissa, che lascia liberi i propri personaggi di muoversi nell'attimo di piccole azioni in un'esistenza colta nel suo divenire. È solo nel momento in cui la mente del protagonista si slega dalle responsabilità del momento, per vivere di fantasia e completo amore, che anche lo sguardo del regista si sblocca, reduplicando un dinamismo d'animo che tutto muove e tutto scuote. Istantanee di un'umanità unica e irripetibile, le riprese di Miracle sono fotogrammi che sorgono dal basso.
Debitrici del cinema di Yasujiro Ozu, le riprese si fanno cantrici di un un mondo umile, nato dal basso e dal basso raccontato. A colorare di vita vissuta questa galleria di umana semplicità ci pensa una luce naturale che riscalda il mondo con cromature rosee e calde, lasciando confluire un ulteriore senso di realismo a una storia di per sé leggera, ironica, ma che sotto il velo della spensierata giovinezza cela fardelli sociali che pesano e ostacolano la soddisfazione di una vita senza pretese.
In questa vita che scorre come un treno in corsa, sappiamo cosa lasciamo, ma non cosa troveremo. Ma il vero miracolo è comunque quello di continuare a buttarci, lasciarci andare in questo treno in corsa, nella speranza di trovare un campo illuminato da lucciole brillanti ad accoglierci e segnalarci la giusta via da intraprendere. Il vero miracolo è dunque il saper credere in noi stessi e attendere con pazienza che il giusto treno si fermi alla nostra fermata, proprio come ci ha insegnato Joon-Keyong.
Conclusioni
Concludiamo questa recensione di Miracle sottolineando come il film diretto da Lee Jang-hoon riesca a raccontare, con ironia e commozione, la caparbietà di un ragazzo che attraverso la costruzione di una stazione ferroviaria vuole costruire anche per sé e per la propria famiglia un nuovo inizio. Abitato dai fantasmi di errori e rimorsi del passato, il giovane Joon-Keyong si fa portavoce di genio e innocenza, dolore e traumi mai esorcizzati, restituendo al proprio pubblico uno spaccato di vita vissuta nello spazio di un racconto cinematografico.
Perché ci piace
- La performance degli attori.
- Le riprese dal basso, atte a restituire l'umiltà dei personaggi narrati.
- I punti di svolta mai banali e raccontati con ironia.
- L'umorismo dilagante.
Cosa non va
- Una durata di visione forse un po' troppo eccessiva.
- La lunghezza di certi dialoghi che vanno a indebolire l'aspetto drammatico della storia.
- Il parrucchino del papà di Joon-Keyong.