La bellezza contro la brutalità. La grazia contro la violenza. L'incanto contro la disillusione. Frank Miller e Milo Manara non potrebbero essere più diversi di cosi, agli antipodi di un'arte fumettistica di cui sono meravigliosi e inimitabili interpreti. Maestri assoluti del racconto sequenziale, il fumettista italiano e l'autore americano incarnano due anime opposte, rintracciabili sia nelle loro storie che nel loro stile di disegno. Il tratto di Manara è aggraziato, sensuale, armonioso, proteso verso l'irresistibile bellezza femminile. Quello di Miller è grezzo, deforme, esasperato, spesso alla base di personaggi maschili granitici. Quello che li unisce è una profonda stima reciproca e il tipico fascino dei contrasti che si attraggono senza via d'uscita. In occasione del Comicon 2018, Napoli ha ospitato un atteso incontro tra i due, e i due miti hanno assunto le sembianze di due amici che si ritrovano per una chiacchierata informale. Un momento di straordinaria normalità davanti ad un pubblico pieno di un entusiasmo incontenibile. Affabili e divertiti, Manara e Miller hanno parlato dei loro esordi, delle loro passioni e dei loro limiti, senza dimenticare curiosi aneddoti sul dietro le quinte delle rispettive carriere.
Però l'apice del loro faccia e faccia partenopeo arriva quando Milo Manara chiede a Miller il permesso di ambientare nella sua Sin City una sua storia. Una storia di stampo kafkiano, dedicata alla disperazione e alla ferocia dei nostri tempi. Miller sorride, si dice onorato, e replica dicendo: "Vorrei scrivere una storia per te. Il tempo non mi manca". Il tutto suggellato da una stretta di mano che ha il sapore di una succulenta promessa. Perché l'incontro tra questi spiriti tutt'altro che affini è davvero un sogno proibito. Oppure un meraviglioso incubo. Dipende da come verrà disegnato.
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Miti allo specchio
È difficile immaginare che persone come Manara o Miller possano provare invidia. Invece è così. È l'invidia consapevole e sana di chi riconosce i propri limiti, di chi ammette di avere una sensibilità portata per una determinata visione del mondo. Manara ammette: "A Frank devo il mio avvicinamento al mondo dei supereroi, soprattutto dopo il suo fantastico lavoro su Batman. Trovo che il suo stile sia un meraviglioso incastro di più influenze: ci sono innesti europei, c'è il noir tipicamente americano e poi c'è Omero. Sono convinto che lui derivi dall'Iliade, perché nei suoi fumetti c'è una dimensione epica rintracciabile facilmente sia in Batman che in Sin City. I suoi personaggi hanno un gigantismo e una complessità psicologica incredibile; sono forti ma hanno anche grandi fragilità.
C'è un cuore tenero che batte dentro i suoi eroi granitici. Sapete, anche io mi propongo sempre di scrivere qualcosa di tragico ma sono condannato alla leggerezza. Mi viene sempre fuori qualcosa di divertente. È l'esatto opposto di quello che accadeva a Federico Fellini che cominciava un film con l'intento di farlo comico, per poi sfociare nel drammatico. Sono davvero incapace di qualcosa di tragico. Forse mi manca una certa profondità". Al suo fianco Frank Miller sorride, forse pensando alla profonda, tragica miseria umana di cui sono impregnate le sue tavole. Così l'autore statunitense replica: "Ehi, non devi lamentarti di essere così felice. È un grande merito non deprimere le persone. Trovo magnifico il lavoro di Milo, perché è costantemente attraversato da bellezza. E poi c'è sempre tanto humor nelle cose che fa".
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Cuori spezzati e ribelli: gli esordi
C'è stato un tempo in cui Manara non era ancora Manara. Un tempo in cui Miller non era ancora un'icona. Il fumettista trentino ricorda così i suoi esordi: "Io sono stato il tipico sessantottino. Da giovane contestavo la Biennale di Venezia armato di striscioni. Ero schierato contro l'arte dei padroni, quella borghese, perché in quel periodo si avvertiva uno scollamento tra arte figurativa e società. L'arte non rappresentava più la realtà. Una cosa che non dovrebbe accadere mai, perché l'arte iconografica ha una funzione sociale fondamentale. Così è stato il fumetto a darmi la possibilità di darmi un ruolo sociale grazie alla sua capacità di entrare nell'immaginario collettivo come forma culturale. Ammetto di non aver mai letto tanti fumetti da ragazzo, infatti ho scoperto il loro valore soltanto facendoli. Alla fine ho buttato via la tonaca dell'artista e mi sono messo a fare il fumettaro". La consapevolezza fumettistica di Miller, al contrario, è stata molto più precoce: "Ho sempre voluto fare il fumettista, sin da quando avevo cinque anni, da quando dicevo a mia madre che era il lavoro che avrei voluto fare per il resto della mia vita.
La parte più difficile è stata convincere il resto del mondo di questo mio progetto, e farmi pagare per realizzare fumetti. Ci sono stati tanti momenti fondamentali nel corso della mia formazione. Il primo è stato l'incontro con il leggendario Will Eisner, che mi disse di scrivere e di disegnare soltanto dopo aver viaggiato tanto e visto il mondo. Mi disse che soltanto un cuore spezzato può raccontare qualcosa di vero. Poi devo tanto anche a Jack Kirby, che è stato un punto di riferimento assoluto per tutta la nostra generazione. Infine devo tanto all'apertura di una fumetteria di New York, che mi ha aperto un mondo a me ancora sconosciuto. Così ho conosciuto Hugo Pratt. Mi sono letteralmente abbeverato dalle sue opere, tanto da influenzarmi per fumetti come Ronin".
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Fare fumetti
Cosa spinge due persone a passare vite intere tra fogli e matite? Perché dedicare al fumetto la propria esistenza? Manara racconta: "Il fumetto è qualcosa di nobile, per questo sono felice che i pregiudizi nei suoi confronti stiano scomparendo. Inizialmente era considerato qualcosa di poco conto, senza valore, un gioco fine a se stesso di basso rango culturale. Poi le cose sono cambiate. Il fumetto ha smesso di essere un genere di racconto ed è diventato una forma di racconto che contiene al suo interno dei generi. È un mezzo culturale che ha sterminate possibilità proprio grazie alla sua estrema povertà. Non richiede grandi mezzi economici come il cinema, per cui ogni cosa è fattibile senza troppo dispendio di denaro. L'essere umano si è sempre riconosciuto nel disegno, sin dai tempi dell'homo sapiens che nelle sue caverne faceva gli stessi gesti che facciamo oggi quando creiamo forme sui nostri fogli. Per questo credo che il fumetto, essendo qualcosa di atavico, sia destinato all'eternità.
Sappiate che io provo una felicità vera nel disegnare i corpi femminili. Non li considero mai oggetti di consumo, ma oggetti di venerazione. Sul lavoro da disegnatore vincolato a sceneggiatura altrui, tutto dipende dallo stile dello sceneggiatore. Quando ho lavorato in Marvel, era come procedere su dei binari dai quali era impossibile uscire. Con Pratt, al contrario mi sentivo molto libero di interpretare le sue suggestioni e di dilatare i tempi narrativi. Con Fellini, invece, il regista era lui, infatti lui mi passava persino i suoi storyboard, per cui inserire qualcosa di mio era piuttosto difficile". Frank Miller continua a sorridere sornione e dice: "Davvero? Sei attratto dalle donne? Non me ne ero accorto. Tornando al fumetto, per me tutto parte sempre dalla storia, dall'esigenza di raccontare. Nel mio processo creativo i personaggi hanno un ruolo fondamentale. Devo subito capire come si intrecciano le loro storie, come le loro vite possano entrare in contrasto. Quando scrivo, poi, mi segno i momenti focali della sceneggiatura. A volte devo prenderne le distanze per visualizzare tutto al meglio. Sapete, scrivere non è una ricetta. Non è facile prevedere tutto, perché la storia deve sedimentare dentro il suo autore". Quello che sedimenta nel pubblico di Napoli è una profonda gratitudine assieme alla consapevolezza di aver assistito ad un duello gentile tra due persone di rara grandezza artistica.