Cosa vuol dire "classico"? Ripiegare lo spazio-tempo, surclassarlo, prevederlo e superarlo, per vivere in eterno. E l'opera di William Shakespeare ne è l'emblema. Nonostante decorrano i 460 anni dalla nascita del Bardo, non vi è dramma, tragedia, commedia che non rispecchi i cambiamenti di una società che quelle stesse pagine le hanno prese, raccolte in eredità e riportate in vita sul palco di un teatro, o davanti a una cinepresa. Il segreto dell'opera di William Shakespeare è quella di essere originale senza esserlo davvero, perché il drammaturgo ha sempre attinto ad altri mondi, ha rubato, preso in prestito, rielaborato parole e storie masticate da altri. Ed è proprio nella mescolanza di mondi e tradizioni sempre diversi, che Shakespeare ha potuto dare in pasto ai prosperi universi eterni, rimanendo per questo sempre attuali, e al passo con i tempi. Appunto, restando... classici.
Le paure, i dolori, le ambizioni, le scie di sangue, e le lacrime d'amore, sono sconvolgimenti interni che non hanno scadenza; sono universali ed eterni, riconoscibili e a-temporali. E Shakespeare è stato capace di raccontarli nello spazio invisibile di un palcoscenico. Come affermato dal drammaturgo August Strindberg, Shakespeare è il più grande di tutti perché "descrive gli uomini in tutti i loro aspetti, incongrui, contraddittori, lacerati, fragili, divisi, incomprensibili proprio come sono gli esseri viventi". Shakespeare ha così modellato prototipi umani di vizi e virtù, emozioni e paure, re e buffoni, amanti e traditori, portatori di una visione della propria società tramandata nei secoli a seguire. Ed è proprio nello spazio di un cambiamento che si ritrovano le evoluzioni (o involuzioni) della società di riferimento. Tutto diventa fattore sintomatico di una società in continuo mutamento, dove il passaggio intergenerazionale viene segnato da divergenze, traguardi, successi e sconfitte che le rendono uniche. Scopriamo allora 5 film tratti dalle opere di Shakespeare che, nella forma di modifiche e cambiamenti, rivelano l'essenze della propria società, dialogando con essa, riverberandone forze e debolezze, ingiustizie e predomini,(dis)parità e traguardi umani.
1. Macbeth di Joel Coen
"Spero che gli abiti vecchi non ci stiano meglio di quelli dei nuovi". E con il passare del tempo l'abito di Macbeth, usurato, ma non per questo meno contemporaneo, è riuscito a ricucirsi su corpi sempre nuovi, mantenendo ogni volta la propria unicità. Sono abiti che parlano di ambizioni passate che si reiterano nel presente. Da Il trono di sangue di Akira Kurosawa (che sposta la scena nel Giappone medievale senza utilizzare neppure una parola dell'opera del Bardo), a quello filologicamente fedele di Justin Kurzel con Michael Fassbender e Marion Cottilard, passando per il Macbeth di Roman Polanski fino ad arrivare alla versione teatrale in sardo con Macbettu, la sete di potere intinta di sangue che arriva ad accecare e rivestire il corpo e l'anima di Macbeth e Lady Macbeth, vive di una tragedia destinata a ripetersi anno dopo anno, governo dopo governo, giungendo intaccata fino ai giorni nostri. Un'essenza che sottilmente viene ripresa e tradotta sotto nuove storie come quelle di Succession (dove il Macbeth incontra Re Lear) ma che tra le mani di Joel Coen (qui alla sua prima opera senza il fratello Ethan) danza mefistofelicamente con altri caratteri fondanti la società contemporanea.
La sete di potere non ha età. E in un mondo come quello contemporaneo, dove i giovani arrancano, e il potere rimane fermo tra le mani di pochi, nulla di nuovo avanza e l'ambizione continua a giacere in un grembo secco. E così, l'incapacità di lasciare il nuovo che avanza, la paura dell'insubordinazione, l'egoistica avarizia di trattenere il potere tra le mani, rivive in un Macbeth non più trentenne, ma molto più anziano, perfettamente interpretato da Denzel Washington. Rivestito da un bianco e nero capace di restituire la lotta tra il bene e il male, The Tragedy of Macbeth diventa cromaticamente una guerra da cui uscirà trionfatrice solo l'ombra della morte. Ma quel manto bicromatico è un elemento aggiuntivo a quell'incubo di malsana ambizione che rende pazzi, lunatici, prigionieri di un'irrazionalità che la struttura geometrica, sospesa, metafisica, degli spazi infonde ed esacerba. Macbeth è un uomo piegato dalla propria sete di potere, un fardello che Coen rende tattile, tangibile, grazie a inquadrature sempre più inclinate, che schiacciano verso il basso dell'inferno il protagonista, o che lo attirano a sé, verso il basso ventre del proprio, cancerogeno, terreno pulsante. Il Macbeth di Coen è un uomo maturo, ma non per questo saggio; un manifesto minimale, dove le parole anticipano il colpo sferrato da spade affilate. "Viviamo in un mondo in cui oggi fare del male è spesso lodevole. E fare del bene è considerato pura follia". E quello di Joel Coen non poteva che restituire in maniera più enfatica, diretta, e magnificamente minacciosa, le parole di William Shakespeare.
2. Romeo + Giulietta di Baz Luhrmann
Da una parte Leonardo DiCaprio e Claire Danes, due giovani alle porte del successo; dall'altro un regista visionario, praticamente sconosciuto, che non ha paura di toccare una delle opere cardine della produzione Shakespeariana per tracciare i contorni del proprio stile eccentrico, barocco, colorato, così da raccontare le pene d'amore dei giovani d'oggi che sono le stesse di quelle di ieri. Nessuna Verona del '400: il Romeo + Giulietta di Baz Luhrmann si sposta nell'americana Verona Beach, negli anni Novanta. Tutto sa di quegli anni, dai colori, dalla televisione sempre accesa, dai vestiti, ma soprattutto dalle faide di famiglie in combutta, come gli anglosassoni e protestanti (Montague) e gli ispanici e cattolici (Capulet). Tutto si aggiorna, si ammoderna, parlando però la lingua di William Shakespeare. Luhrmann va oltre a quanto compiuto con West Side Story: nessuna ispirazione, adesso il cinema postmoderno del regista australiano affonda a piene mani in quella tragedia sentimentale per antonomasia, riportandola sulla scena con nuove vesti, per parlare in maniera più diretta a un pubblico giovane, accostando immagini trash, musica pop-rock e iconografia pulp, in un pastiche cinematografico tenuto insieme da un sentimentalismo proferito con versi giambici e poetici.
Baz Luhrmann gioca di fantasia, immaginazione, tentando di recuperare quell'abilità evocativa e visiva che tanto caratterizza lo stile del Bardo per affascinare, commuovere, colpire i propri spettatori, impiegando con astuzia ogni elemento vicino e consono alla propria epoca, come la commedia volgare di bassa lega, i soggetti d'attualità, la tragedia sofisticata, la violenza dei gangster, la street-art, la moda, e la musica commerciale. L'incontro a casa dei Capuleti, gli sguardi incrociati e rubati dai due protagonisti, attraverso un acquario che tutto deforma e tutto raccoglie in una bolla intima ed esulante i due dal resto dal mondo, è già entrato nell'immaginario collettivo (tanto da essere citato anche in una serie come Euphoria). Secondo capitolo della "trilogia del sipario" il primo capitolo è Ballroom del 1992, il terzo è Moulin Rouge! del 2001- Romeo + Giulietta dimostra quanto ancora il peso delle famiglie, le loro imposizioni, e l'odio sociale che li guida, finiscano ancora oggi a influenzare, fino a contrastare, il desiderio personale e sentimentale dei propri figli. Limiti, conflitti, pene d'amore senza tempo, destinate a reiterarsi, muovendosi tanto tra le vie di una Verona rinascimentale, quanto in una contemporaneità già bombardata da immagini televisive.
3. La tempesta di Julie Taymor
La tempesta è, per convenzione, l'ultima opera ascritta a William Shakespeare. Un congedo vivo di meraviglia, di sublime attrazione del genere umano dinnanzi allo spettacolo della natura. Ma La tempesta è anche un Bildungsroman , un romanzo di formazione, un manifesto, un saggio redatto a parole da Prospero alla propria figlia Miranda. Una lezione di vita, tra passato e presente, bene e male di cui Prospero si fa anche Maestro, chiamato a istruire e tramandare la fonte della conoscenza all'adorata figlia, rendendola cosciente attiva, parte integrante del mondo che la circonda. Tra le mani di Julie Taymor, La tempesta non vuole però vivere di rimasugli del passato. Nessuna attualizzazione temporale, o ambientale, se non un'essenza onirica, sospesa, di sovrimpressioni, tipiche del modus operandi della stessa regista (si pensi ad Across the universe). Il potere di una società che tenta di modificarsi, cambiare, protrarsi dinnanzi a un'uguaglianza che comunque sfugge sempre più, è da ritrovarsi proprio nel personaggio principale de La tempesta: non più Prospero, ma Prospera. Un cambio di sesso che di certo non snatura l'indole iniziale del personaggio, ma anzi lo arricchisce di una ferocia maggiore rispetto a quella che ci si aspetterebbe convenzionalmente da una donna. Quella di Prospera è una femminilizzazione del personaggio che di certo non è del tutto inedita, visto che già Lenka Udovicki nel 2000 per il suo The Tempest al Globe Theatre di Londra affida a Vanessa Redgraveil personaggio di Prospero.
Eppure, nello spazio di una cornice cinematografica, ogni modifica viene magicamente amplificata, recepita con maggior furore e sorpresa da parte dello spettatore. Con tale cambiamento di genere, Julie Taymor apporta il suo contributo a una letteratura atta ad alimentare e ricordare la forza femminile e la sua emancipazione nel corso degli ultimi duecento anni. Dotata di saggezza, forza mentale e furbizia, la Prospera di Hellen Mirren eguaglia - e a tratti supera - il potere vantato dalla controparte maschile, sia quello politico, sociale, ma anche sessuale. La Tempesta è, però, anche una storia di tradimenti fraterni, di un fratello che usurpa il trono dell'altro, lasciando che quest'ultimo (Prospero, il legittimo Duca di Milano) venga esiliato su un'isola del Mediterraneo, facendolo il signore e dominatore di quel luogo. Non vi era pertanto un'opera migliore per la Taymor per dimostrare quanto la donna, proprio come Prospera, nella vita di tutti i giorni venga costantemente messa da parte, tra mansplaining, pregiudizi, senso di inferiorità e leggi che decidono sul proprio corpo, relegandola al ruolo di esiliata in una quotidianità che non la riconosce. Ma, come ricorda questa versione di The Tempest, anche le donne possono attingere al ruolo di potere ed essere socialmente riconosciute per il proprio valore, grazie a una forza interna che va oltre il proprio senso materno.
4. Coriolanus di Ralph Fiennes
Sono assi di legno instabili quelle su cui si muove Caio Marzio Coriolano, protagonista della tragedia in cinque atti (nonché la meno rappresentata) di William Shakespeare, ispirata al racconto datane in Vite parallele di Plutarco e all'Ab Urbe condita di Tito Livio. Una storia di vendetta, tradimento, sangue e guerra che ancora oggi affligge la cronaca mondiale. Basta accendere la televisione per assistere all'opera di tanti figli di Coriolano, tra disertori, uomini che giurano vendetta, e altri che tradiscono il proprio popolo, alleandosi con il nemico, cibandosi dal banchetto della miseria; una forza contrastante, oppositiva, non per forza da considerarsi come nemico politico, ma anche morale ed etico. Lontano dalla versione fedele all'originale portata sul palco del Donmar Warehouse di Londra con protagonista Tom Hiddleston, Ralph Fiennes sceglie Coriolanus per il suo debutto dietro la macchina da presa, e lo fa compiendo un'operazione non dissimile da quella attuata da Baz Luhrmann con Romeo + Giulietta.
L'attore e regista attualizza e sposta la Roma immaginata dal Bardo in uno scenario da est Europa. Non è difficile riconoscere tra le mura rivestite di scritte, o tra le notizie riportate al telegiornale, rimandi alle guerre del Kosovo, o della Seconda Guerra Cecena, fino ad anticipare, addirittura, il movimento dei Gilet Jaune di Parigi del 2018. Colto da una macchina a mano che allude a un senso di documentarismo, quello di Coriolano è un ambiente desaturato, cinereo, di un giallo che non riscalda ma sa di ittero, di malattia, e in cui l'unico colore che risalta è quello del sangue rappreso, o colante che scorre e ricopre il volto pieno di cicatrici del proprio protagonista (cicatrici di cui la stessa madre, interpretata da una mefistofelica Vanessa Redgrave, va fiera). La parola in versi dell'opera Shakespeariana messa in bocca a uomini del nuovo millennio crea un senso di straniamento; eppure, è proprio nello spazio di questa disorientante sensazione, che soggiace l'idea che la superbia, il potere personale e sanguinario di un singolo sulla società, non abbia età, ma sia destinato a ripetersi all'infinito. È un circolo vizioso e senza fine, quello di Coriolanus, che si ripete dai tempi di Roma, fino ai giorni nostri. Tutto va oltre il palcoscenico di un mondo fattosi teatro: nella società delle immagini anche il tradimento, la violenza, l'insurrezione popolare, i riot, o il dolore familiare, si fa show televisivo da dare in pasto a persone ormai assuefatte dalla sofferenza per scatenare la benzina di uno schermo televisivo: l'indignazione e il pregiudizio. E così, ancora una volta l'immagine si fa strumento politico di orientamento di pensiero, modellazione della mente, strumento di coscienza, come fu, e sempre sarà, nello spazio di una dittatura.
5. Hamlet di Kenneth Branagh
Oggetto di migliaia di analisi e interpretazioni, Amleto è uno dei grandi miti moderni, (anti)eroe di una tragedia di vendetta che non si limita ad accettare passivamente il destino che muove le proprie tessere, ma decide di interrogarsi, indugiare e indagare sul funzionamento del mondo, fino a riempirsi la mente di dubbi, quesiti, e non riconoscere più ciò che è vero da ciò che è finto, ciò che è morte o solo sogno. Tra le mani di Kenneth Branagh il marcio continua a vivere in Danimarca, ma il periodo storico non è più lo stesso; da un'Inghilterra senza regnanti dei primi del Seicento, si passa all'Ottocento del decadentismo, dell'evoluzione tecnica e sociale. Nessun taglio, nessuna sintesi di racconto: ogni parola impressa per sempre da Shakespeare è restituita nella sua forma filologica, ma a rivelare un sintomo di cambiamento nella società di quel 1996 che ha visto realizzarsi la versione di Branagh, è come il regista abbia trattato il personaggio di Ofelia. Non più semplice comprimaria, interesse sentimentale del principe di nero vestito, l'Ofelia di Kate Winslet si prende il proprio spazio di azione, diventa agente e non più testimone passiva della performance della pazzia del suo amato.
Sebbene i tempi del #metoo siano ancora lontani, il protagonismo affidato a Ofelia rivela il seme primordiale di quella lotta all'uguaglianza di genere che ancora oggi anima le nostre piazze, e le nostre bacheche social. Tra le mani di Branagh, Ofelia si eleva pertanto a proiezione diegetica non solo della difficile posizione della donna all'interno del microcosmo di Elsinore, ma anche in quella nata in seno alla società a lui/a noi contemporanea. Una sensibilità verso la discrepanza di genere che si andava sempre più concretizzandosi negli ultimi anni del XX secolo, gli stessi durante i quali il film di Branagh veniva realizzato. Quella di Kate Winslet non sarà più, pertanto, mero oggetto di contorno, ma chiave di volta dell'intero racconto. Alla giovane Branagh dona spazio e importanza, complice la presenza di un talento come quello di Kate Winslet. Lo dimostra non solo il running time dedicato alla giovane, ma anche il numero di battute da lei proferite: se all'Ofelia di Laurence Olivier e Zeffirelli sono destinate rispettivamente 803 e 456 parole, a quella di Michael Almereyda in Hamlet 2000 447. L'Ofelia di Branagh, invece, proferisce ben 1233 battute. Grazie a Branagh e alla sua Ofelia, si muovono silenti le prime avvisaglie di stanchezza per un ruolo emarginato, Ignorato, sottomesso come quello della donna nel meccanismo patriarcale: un ruolo non dissimile da quello affidato a Ofelia alla corte di Claudio e Amleto.