"Where is my mind?" si chiedono i Pixies nella celebre sequenza finale di Fight Club. E non c'è frase migliore di questa per racchiudere tutta la potenza evocativa e narrativa di un cinema come quello di David Fincher. Cinema della mente e dei suoi malfunzionamenti, quello di questo regista, nato a Denver il 28 agosto 1962, è un labirinto cerebrale fatto di pertugi nascosti e stanze sotterranee, dentro le quali nascondere, come polvere sotto il tappeto, vizi e poche virtù dell'animo umano. Sono peccatori affiancati da pochi santi i protagonisti delle sue opere. Cloni della nostra società, ognuno di questi protagonisti si eleva a capro espiatorio modellato a nostra immagine e somiglianza per patire al posto nostro.
Vivono rinchiusi nelle proprie ossessioni, immagini speculari di se stessi ingabbiati in un gioco di specchi in cui il riflesso non combacia con la visione reale. Lontana dagli schemi rassicuranti di un modo di fare cinema atto a celebrare il poltically correct e gli happy endings, la bellezza del cinema di David Fincher è rinchiusa tutta qui: nel prendere ogni tipo di genere, mescolarlo e ribaltarlo secondo i propri stilemi per dar vita a una visione speculare e ribaltata delle aspettative spettatoriali. Come l'alter-ego del protagonista di Fight Club, il pubblico deve andare oltre alle apparenze, stare alle regole impartite da Fincher per apprezzare al meglio il gioco mentale da lui escogitato.
Un pantheon di anti-eroi, il suo, che ribolle della violenza sotterranea dell'animo umano, un istinto animalesco respinto e tenuto nascosto in una gabbia che Fincher non ha paura di aprire. L'abilità di questo autore è quella di rendere visibile quell'invisibile mal du vivre che affligge l'uomo moderno. Come un burattinaio, il regista manovra sulla forza della paranoia e della duplicità dell'essere umano, i propri protagonisti e, di conseguenza, i propri spettatori, imprigionandoli in una gabbia illuminata da un focolaio scuro e ribollente, come l'animo dei propri personaggi, ora eroi e allo stesso tempo carnefici, spesso appesi tra il successo e la disfatta, in un finale in sospeso, né lieto, né drammatico.
In attesa di godere di Mank, ultimo suo capitolo di un saggio sul lato oscuro dell'animo umano, ecco qui i migliori film di David Fincher (più un bonus a sorpresa).
1. ZODIAC (2007)
Certe radici non vengono mai eliminate. Come i casi irrisolti restano lì, in agguato, pronti a sussurrare all'orecchio della società la propria celata presenza. La violenza, il desiderio macabro di togliere la vita giocando a fare Dio torna prepotente dopo Seven in Zodiac. Inchiesta giornalistica che vira all'ossessione del singolo di scoprire a tutti i costi la verità, il film del 2007 ispirato a fatti realmente accaduti condensa in sé tutti i vizi e le virtù di un'America che cambia per non cambiare mai. Gli omicidi del serial killer dello Zodiaco si tramuta per il vignettista Robert Graysmith (Jake Gyllenhaal) in una questione di principio, una missione da completare elevandosi a eroe per poi cadere lui stesso alla fine vittima della propria paranoia, prigioniero delle proprie ossessioni, rinchiuso in un antro buio come la cantina del signor Bob Vaughn. La bellezza di un film come Zodiac sta qui, nell'aver proiettato in un'America degli anni Settanta quell'anafettività e costante paura che la affligge nell'era contemporanea.
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2. THE SOCIAL NETWORK (2010)
Il successo che ti avvolge facendo terra bruciata intorno a te. Essere il re delle interazioni sociali online e perdere uno a uno i tuoi amici, quelli veri. È un ossimoro paradossale ad avvolgere la vita del Mark Zuckerberg di David Fincher in The Social Network. Il suo protagonista ascende alla cima della ricchezza ritrovandosi solo, avvolto dalla nebbia, come il personaggio ritratto da Caspar David Friedrich nel suo Viandante in un mare di nebbia. Sorretto da performance impeccabili, una colonna sonora che abbraccia, enfatizzandola, ogni minima sfumatura emotiva, e una fotografia pronta a virare su tonalità fredde non appena il logo di Facebook investirà il normale corso della vita di Zuckerberg (Jesse Eisenberg) e dei suoi amici, The Social Network nasce come film di formazione per poi ribaltare i propri codici, tramutandosi in un dramma condito da umorismo e caustico sarcasmo tipico delle screwball comedies classiche. Uno spostamento dei generi che fa di Fincher uno degli ultimi grandi autori (e cantori) dell'America di ieri e oggi, tanto da paragonare la sua opera a quella di registi del calibro di Pollack o Pakula.
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3. L'AMORE BUGIARDO - GONE GIRL (2014)
C'è chi, senza paura di esagerare, ha visto in David Fincher uno dei degni eredi del cinema di Alfred Hitchcock. Come il maestro del brivido, così il regista di Denver ha saputo districarsi con agilità tra i sentieri pieni di ostacoli di ogni genere cinematografico, piegando ogni elemento strutturale e motivi ricorrenti secondo la propria estetica artistica. Con Hitchcock, Fincher condivide un'altra grande abilità: avvicinarsi a romanzi, o semplici racconti, per estrapolarne il cuore e reinserirlo in un corpo nuovo, più adatto alla propria visione registica. E così, dopo il cult Fight Club, il remake di Millenium: Uomini che odiano le donne, e l'elegante adattamento del racconto di Ftizgerald Il curioso caso di Benjamin Button, nel 2014 il regista trasforma un ottimo thriller come L'amore bugiardo - Gone Girl in uno dei suoi film più iconici e riusciti, forte della performance di una gelida Rosamund Pike nei panni di Amy e di un ottimo Ben Affleck in quelli di Nick. Il gioco dell'apparenza, dei sospetti e delle convenzioni famigliari che strangolano le nostre attese, per poi resuscitare sotto forma di sospiri e occhi pieni di meraviglia, trovano in Fincher il loro nuovo, perfetto, cantastorie. Il tutto avvolto da una bicromia in cui il fuoco dei ricordi del passato, abbraccia il freddo di un presente colmo di recriminazioni, ricatti, sospetti e soggiogazioni psicologiche.
4. FIGHT CLUB (1999)
Un'ondata di fischi travolge David Fincher e il suo cast alla presentazione di Fight Club alla Mostra del cinema di Venezia. Un'accoglienza fredda, capace di colpire e mettere al tappeto realizzatori e interpreti con la stessa forza dei pugni che i membri del Fight Club sferrano tra di loro sul grande schermo. E poi gli anni passano, e quell'amaro sapore di sangue rappreso e sapone in ebollizione, inizia a inebriare una sempre più ampia fetta di pubblico, facendo del film del 1999 un vero e proprio cult. Fight Club è la prova cinematografica che conferma l'invidiabile abilità di David Fincher di immortalare in un'istantanea eterna la realtà che ci circonda, senza edulcorare il senso di stress, violenza gratuita, che intossica la nostra realtà, la stessa abilità vantata negli anni '70 Stanley Kubrick con il suo Arancia meccanica. Rendendo visiva - e per questo ancora più reale del reale - la deriva verso cui sta scivolando la società contemporanea, Fincher prende spunto dall'omonimo romanzo di Chuck Palahniuk per denunciare senza paura, remore o pudori, la violenza che aleggia come particelle nell'aria, mostrandola esplicitamente piuttosto che mascherarla dietro falsa retorica o effetti speciali.
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5. MILLENIUM - UOMINI CHE ODIANO LE DONNE (2011)
Potevamo chiudere questa classifica con uno dei caposaldi della filmografia di Fincher, Se7en, ma no. Prendendo spunto dalla stessa visione autoriale di questo regista, abbiamo deciso di ribaltare le aspettative dei lettori e puntare sull'effetto sorpresa. Ingiustamente bistrattato da molti, Millenium - uomini che odiano le donne è in realtà uno dei film più fincheriani di sempre. Riflesso speculare di Se7en, il film del 2011 è l'apoteosi della brutalità umana. Un istinto violento, ingiustificabile, che ribolle tra gli strati più profondi del subconscio umano, non più volto a epurare la società di anime peccatrici, ma soggiogato dal puro piacere di vedere soffrire le proprie vittime. È una brutalità gratuita, fine a se stessa quella dell'assassino ricercato da Mikael (Daniel Craig) e Lisbeth (Rooney Mara), che ritrova nelle donne le sue vittime sacrificali sull'altare di una folle ossessione al centro di una pellicola in cui è il corpo, nudo o martoriato, il punto nevralgico di un adattamento gelido, come le piane innevate svedesi e il cuore di uomini che odiano le donne.
6. SE7EN (1995)
Un film umano, sostenuto da personaggi disumanizzati (il detective Somerset, interpretato da Morgan Freeman)costretti a respingere le proprie emozioni pur di sopravvivere. È un film nato dallo sporco della feccia umana e modellato con il calore del sangue, della perversione e dei coinvolgimenti emozionali, Se7en. Dopo l'esordio con Alien 3, Fincher abbraccia a piene mani il genere thriller, sporcando lo schermo con il sudore di peccati e peccatori, in una giostra lanciata a mille in cui vittime e colpevoli si mescolano e i contorni si confondono. Il serial killer che vuole elevarsi a Dio, punendo chi si macchia dei più atroci peccati per poi macchiarsi lui stesso di efferati omicidi; detective cinici e ribelli, entusiasti e disillusi, portatori di giustizia e boia vendicativi. Sostenuto da un gioco di antitesi e dicotomie costanti, Fincher crea il proprio microcosmo con cui ribaltare le regole del genere, dando vita a un inferno terrestre dove nessuno si salva veramente.
EXTRA: MINDHUNTER EPISODIO 2x01
Mindhunter non è una semplice serie televisiva, ma la summa perfetta di un cinema prestato al piccolo schermo nato dalla mente creativa di David Fincher. Quello messo in campo dal regista americano più che una corsa all'assassino è un'escursione a perdifiato tra le pareti della sua mente contorta. Le indagini, le interviste, le analisi dei casi condotte da Ford (Jonathan Groff) e Tench (Holt McCallany) sono maniglie anti-panico che conducono lungo altri corridoi cerebrali. Sono copie perfette di quegli stessi movimenti e luoghi attraversati dai loro predecessori fincheriani tra ossessioni e paranoie. Una caduta nel baratro oscuro di mente contorte, pronte a invischiare corpo e anima dei due detective, rendendoli prede e vittime delle loro deliranti visioni interiori. Un concentrato di timori, di attacchi di panico e orrori pronti a colpire i due, come riflessi-specchio, riassunti e potenziati alle estreme conseguenze nel primo episodio della seconda stagione della serie targata Netflix. L'intensa sequenza di apertura è un brivido lungo la schiena tradotto in immagini in movimento. Il tutto enfatizzato dal brano "In every home a heartache dei Roxy Music" che stringe ancora più forte quel nodo alla gola che lascia lo spettatore senza fiato, dominato da una perenne e angosciosa attesa di un qualcosa di oscuro, terrificante, pronto a rivelarsi davanti ai nostri occhi.