The sun ain't gonna shine anymore/ The moon ain't gonna rise in the sky/ The tears are always clouding your eyes
Nel finale di Midsommar, sono le note di The Sun Ain't Gonna Shine (Anymore), nella versione originale di Frankie Valli del 1965, a fornire lo straniante accompagnamento musicale dei titoli di coda. Nonostante Midsommar - Il villaggio dei dannati sia appena il suo secondo film, questo sembra già un "marchio di fabbrica" di Ari Aster: in Hereditary, l'horror-rivelazione dello scorso anno, un epilogo di estrema cupezza scivolava a sua volta nella quieta malinconia di un altro classico degli anni Sessanta, Both Sides, Now, nell'incisione di Judy Collins. È la pennellata beffarda che fa immediato seguito all'orrore, con quella ventata di romanticismo che sembra rievocare l'età dell'innocenza di un'altra generazione: l'ultimo, stridente contrasto di un cinema volto a rovesciare le nostre aspettative.
In tal senso, la nuova opera del giovane regista e sceneggiatore newyorkese appare ancora più ardita rispetto al precedente Hereditary: come rilevato anche nella nostra recensione di Midsommar, Ari Aster adopera i canoni dell'horror per mettere in scena un racconto che si presta a molteplici possibilità esegetiche. Non secondo un sistema rigidamente allegorico, dunque (neppure Hereditary, del resto, si faceva rinchiudere in un'interpretazione univoca), ma offrendo una serie di chiavi di lettura di cui, di seguito, proveremo a rendere conto, attraverso una spiegazione di alcuni degli elementi di Midsommar: un film imperfetto, magari, ma senz'altro fra gli 'esperimenti' più coraggiosi e interessanti che siano stati praticati sul genere horror negli ultimi anni. Prima di addentrarci nel nostro approfondimento, vi avvisiamo che seguiranno spoiler .
Un horror alla luce del sole
In Midsommar, come per Hereditary, è una perdita a costituire il motore che dà avvio all'azione. In Hereditary tale perdita era confinata fuori campo, nell'antefatto del film stesso; in Midsommar è invece un avvenimento tragico, l'agghiacciante incipit notturno in cui la protagonista, la studentessa di psicologia Dani Ardor (Florence Pugh), si vede privata all'improvviso di tutta la propria famiglia. È il tenebroso prologo di una pellicola che, da quel momento in poi, si svolgerà interamente alla luce del sole, nonché il fardello che Dani porterà con sé durante il suo viaggio estivo in Svezia in compagnia del fidanzato, Christian Hughes (Jack Reynor), e dei loro amici: la ragazza continuerà ad essere perseguitata da flashback e allucinazioni relativi alle persone amate che di colpo si è vista strappar via.
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È la chiave di lettura primaria di un film che condivide lo stesso nucleo tematico di Hereditary: l'horror come un percorso di elaborazione del lutto, come tentativo di razionalizzare l'osceno (letteralmente, ciò che è confinato fuori dalla scena). Un tentativo disperato: fin dalle prime sequenze, Dani è prigioniera di un'afasia che le impedisce anche solo di accennare alla morte dei suoi familiari senza precipitare nel panico. Il sole perenne della campagna svedese (benché le riprese siano state effettuate nei pressi di Budapest) fa dunque da contraltare al buio nella mente e nell'anima della protagonista, incapace di trovare in Christian la complicità, il sostegno e l'empatia di cui avverte più che mai il bisogno.
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Splendore nell'erba: il villaggio di Hårga
In Hereditary, Annie Graham (Toni Collette) e il figlio sedicenne Peter (Alex Wolff) devono fare i conti con un sinistro retaggio familiare, legato al culto satanico del demone Paimon. Il culto, un microcosmo circoscritto e autoregolato, è presente anche in Midsommar: si tratta di Hårga, una comunità pastorale con tradizioni antichissime impegnata nella celebrazione annuale del Midsommar, un evento in cui si mescolano folklore e paganesimo, imperniato sul valore simbolico del numero nove. Le premesse, con il confronto fra un gruppo di estranei e un villaggio caratterizzato da macabri rituali, rimandano a un film come The Wicker Man di Robin Hardy. Eppure, in Midsommar, la suspense è ridotta ai minimi termini, quando non del tutto azzerata: l'andamento narrativo risulta facilmente intuibile, il ritmo è volutamente lento e compassato.
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È il motivo per cui, come sottolineato in apertura, quello di Aster è tutt'altro che un horror tradizionale: non fa leva sulla paura, quanto sul perturbante; non si preoccupa di spaventare il pubblico né di mantenerlo con il fiato sospeso, ma di produrre un effetto quanto più possibile immersivo rispetto al mondo descritto. Un mondo per il quale Dani prova al contempo repulsione ed attrazione: perché per quanto il villaggio di Hårga sia avvolto in una palpabile atmosfera di minaccia, i vincoli solidissimi fra tutti i suoi componenti e la gioiosità serafica di quelle danze sull'erba esercitano un potere di fascinazione a cui la ragazza fa sempre più fatica a resistere. Christian e i suoi amici, laureandi di antropologia, osservano questa comunità con un occhio 'scientifico', ammantato di una presunta superiorità intellettuale, o con una superficialità edonistica (più evidente nella figura di Mark); l'approccio di Dani, al contrario, è essenzialmente emotivo, libero da sovrastrutture e preconcetti.
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Il sacrificio finale: la nona vittima
Le norme e le dinamiche su cui si basa l'esistenza di Hårga, dall'accettazione del ciclo naturale della vita alle pratiche di endogamia, propongono a loro volta spunti ulteriori, inclusa una potenziale lettura 'politica' del film: una lettura indirizzata verso una società orgogliosamente rinchiusa in se stessa, e disposta ad accogliere "l'altro" unicamente allo scopo di cannibalizzarlo o di usarlo come strumento per la propria sopravvivenza (l'accoppiamento coatto a cui sarà sottoposto Christian). Ma come già indicato, sarebbe una forzatura costringere Midsommar esclusivamente entro i binari dell'allegoria socio-politica; in particolare tenendo conto del fatto che il punto di vista privilegiato rimane quasi sempre quello di Dani, il personaggio focalizzatore del racconto, e che il suo trauma occupa uno spazio così importante nell'economia del film.
In prossimità del finale, la giovane viene proclamata "regina di maggio" e condotta in trionfo, interamente ricoperta di fiori, fin quando il suo ruolo non le richiederà una scelta fatidica: la nona vittima sacrificale. Ed è nell'epilogo che Ari Aster gioca con l'ambiguità della sua protagonista: un burattino dallo sguardo ormai spento che si abbandona passivamente alla volontà dei membri di Hårga o un'anima devastata che ha trovato finalmente una nuova famiglia? Una famiglia che nelle danze, nei cori e nelle grida collettive, siano esse di giubilo o di sofferenza, è in grado di mostrarle quell'empatia pressoché assente in Christian? Perché forse Midsommar è soprattutto questo: una riflessione sulla sudditanza psicologica provocata dall'orrore della solitudine. Quanto basta perché, in quella memorabile inquadratura conclusiva, la smorfia di dolore sul volto di Dani possa trasformarsi in un terribile ghigno.