Quando uscì a suo tempo, Midnight in Paris divise la critica, tra chi ci vide l'ennesima confessione cinematografica da parte di Woody Allen per parlare di se stesso, e chi invece la valutò come un'opera incentrata sul dissonante equilibrio generato dall'aggrapparsi alla nostalgia e all'illusione come alternativa alla vita reale. Quello che è certo, è che Allen stupì tutti, lo fece perché fu capace di creare un film tanto intrigante, romantico, autentico e coerente, quanto in realtà permeato da un sapore agrodolce ed universale, con cui ci parlò più che della vita, della nostra visione della vita stessa, di come la memoria e l'immaginazione siano un'arma a doppio taglio. Sono passati dieci anni da quel film eppure, per uno strano gioco del destino, pare sempre che sia uscito ieri, che sia ancora nelle nostre sale, permettendoci di tornare ai tempi della Generazione Perduta, seguendo i passi del confuso Gil.
Un Americano a Parigi
Midnight in Paris si muoveva con eleganza e ironia attorno all'esistenza triste e demotivante di Gil (Owen Wilson), sceneggiatore tanto acclamato quanto in realtà insoddisfatto della sua vita, della sua epoca, nonché della sua relazione con Inez (Rachel McAdams). In una Parigi in cui si era recato assieme alla fidanzata e ai genitori di lei per cercare l'ispirazione per il suo romanzo, Gil, dopo l'incontro con il mellifluo e saccente Paul (Michael Sheen), si perde solitario nella capitale transalpina. In men che non si dica si ritrova a bordo di una Peugeot d'epoca, destinazione la Parigi degli anni Venti, quella della Generazione Perduta, di Fitzgerald, Hemingway, Belmonte, Picasso, Chanel, Dalì, Bunuel, Matisse e tutti gli altri grandi artisti che ha sempre idolatrato e avrebbe voluto conoscere in quella città. Ma davvero il passato è meglio del presente? O è ciò che vogliamo credere? Ciò che ci fa comodo perché ci permette di evitare di prendere in mano la nostra vita e viverla liberamente? Attorno a questo dilemma, transgenerazionale e molto più universale di quanto si pensi, Allen edifica la struttura di un film capace di toccare le corde emotive di ognuno di noi. Midnight in Paris, occorre immediatamente riconoscerlo, ha senz'altro il merito di mostrarci in realtà una Parigi molto meno commerciale, stereotipata e dozzinale di quanto il cinema americano ci abbia spesso offerto. Il che può sembrare un paradosso, se si pensa che tutto l'insieme risponde o fa riferimento ad uno stereotipo (per quanto nobile): Parigi come crogiuolo di menti eccelse e libere, di amore e passione, di una realtà staccata dalla banale quotidianità. Ma fu in questo contrasto che Allen riuscì a catturare l'essenza di una ricerca interiore, che da Gil si spostò mano a mano verso l'universale, rendendo quella città il ritratto della sua e della nostra emotività.
Recensione Midnight in Paris (2011)
La fantasia come una facile evasione da noi stessi
Il cast che Allen ebbe a disposizione per questo film è ricchissimo. Marion Cotillard, Corey Stoll, Leà Seydoux, Adrien Brody, Tom Hiddleston... ognuno di loro è il volto, la voce, la presenza stessa di una città diventata mito grazie a quegli artisti, che tutti (non solo Gil) hanno amato, e che sono ancora oggi un punto di riferimento assoluto. La "Generazione Perduta", ammantata dal fascino dell'incompiutezza tragica connessa al grande carnaio del primo conflitto mondiale, alla perdita della promessa di felicità e libertà, assunse grazie ad Allen a simbolo di quanto la memoria possa essere viziata da un'immobilità che era l'altra faccia dell'autoreferenzialità più estrema. Gil è insoddisfatto della sua vita, della relazione tossica in cui si trova e del suo lavoro. Di riflesso è quindi insoddisfatto del mondo che lo circonda, dell'epoca in cui vive, che gli pare un circo ipocrita e sterile, una gabbia in cui la libertà è negata. La sua fantasia, quel mondo popolato dalle menti eccelse che egli ha sempre invidiato e da cui il suo inconscio cerca approvazione e riconoscimenti, diventa l'immagine speculare della sua insicurezza. Tutto ciò che vede non è la realtà, neppure quella storica è come egli la immagina, è una trasfigurazione che segue il corso della sua anima, il mondo ideale creato dalla sua insoddisfazione. Midnight in Paris ci fa capire come il suo isolarsi in una realtà tutta sua, salire su quella Peugeot, perdersi assieme alla bella e dolce Adriana, non sia tanto un'ancora di salvezza, quanto una fuga dalla necessità di cambiare il percorso della sua vera esistenza. Su tutto domina il malinteso, la trappola che ogni nostalgico e malinconico romantico ha sempre davanti a sé: il passato è una cartolina parigina pronta e servita, è ritrovare emozioni e luoghi e sapori già noti e rassicuranti. L'incertezza del presente, e soprattutto del futuro, rende tale percorso tanto attraente quanto ingannevole e sterile.
Café Society: Woody Allen 'Io romantico, ma le mie ex non la pensano così"
L'arte e il suo ruolo nella realtà
In una recente intervista televisiva, Woody Allen ha confermato quanto l'immaginazione, la fantasia, siano da sempre per lui armi decisive nella lotta per la sopravvivenza dell'anima.
Midnight in Paris ce ne mostrò però anche il lato più pericoloso: mitizzare il passato. La questione in realtà è ancora oggi all'ordine del giorno, basta pensare a come in tanti considerano gli anni Novanta, l'ultimo vero, grande decennio, in contrapposizione al nuovo millennio, accusato di omologare tutto e distruggere la diversità.
Tra humor, romanticismo e un mostrarci i grandi volti del passato di una Parigi resa in realtà più umana, ecco che nell'elogiare il cuore pulsante della sua storia Allen confessò anche i propri punti deboli ed incertezze. Ma rivendicò con fierezza anche l'avversione verso l'idealizzare l'arte rispetto all'umanità da cui essa nasce e rappresenta.
L'arte e la cultura sono uno strumento, sta a noi decidere come utilizzarlo e come farne uso. Si può essere degli arroganti e insulsi intellettuali come Paul, per i quali l'arte è uno specchio su cui riflettere il proprio narcisismo, oppure fare come Gil, che la usa come fonte d'ispirazione con cui cambiare la propria vita.
Perché se è vero che la vita non può essere come i nostri sogni, Allen (nel suo eterno abbracciare cinismo e ottimismo) con questo film ci ricordò che esplorarli con coraggio, con gli occhi bene aperti e un libro di appunti in mano, è l'unico modo per trovare un senso nella nostra realtà.
Un'opera personale? Certamente. E colma di autocritica così come di una non indifferente critica verso il concetto di rigidità accademica, di sacralità dell'artista in quanto depositario di una supposta divinità.
Ma vi è anche il rivendicare il ruolo dell'artista e del cinema (anche il suo) nelle nostre umanissime esistenze: dare un senso a questo tribolare quotidiano, motivarci ad andare avanti e cambiare o perlomeno provarci. Il passato è attraente, ma il futuro è pieno di possibilità. Vale la pena perdercisi come nella Ville-Lumiere del tempo che fu.
Buon compleanno Woody! Il cinema di Woody Allen in 20 scene cult (prima parte)