Men in Black: perché è (ancora) il film più cool sugli alieni

Will Smith, Tommy Lee Jones, i segreti di Manhattan, l'influenza culturale: Men in Black, lo sci-fi in salsa comedy di Barry Sonnenfeld, usciva negli USA il 2 luglio 1997. Venticinque anni dopo il fascino è ancora intatto.

Will Smith e Tommy Lee Jones in un'immagine promozionale del film Men in Black
Will Smith e Tommy Lee Jones in un'immagine promozionale del film Men in Black

Un film, qualunque esso sia, è davvero influente quando supera lo spazio cinematografico invadendo la realtà. La percezione tra cosa sia reale e cosa sia inventato diventa via via più sottile, ed è lì che si va a creare il mito, il culto. E la prova tangibile la fanno le location, che diventano vere e proprie mete turistiche. Se si ha la fortuna di vivere a Londra, Parigi, Los Angeles o Roma ci sono innumerevoli scorci entrati nell'immaginario, ma è New York City la capitale universale dei set. Dunque, un esempio pratico e, permetteteci, un filo personale: per chi sta scrivendo, la prima volta nella Grande Mela (era il 2014) non è stata segnata dalla verticalità dell'Empire State Building, dal verde di Central Park o dalla maestosità della Stata della Libertà, bensì dal... Brooklyn Battery Tunnel Ventilation Buildings. Cos'è? Un'imponente e ambigua costruzione cubica alle spalle di Battery Park, a sud di Manhattan, scelta da Barry Sonnenfeld per l'esterno del quartier generale di Men in Black. Un angolo fuori cartina che, dal 1997, ha acquisito un altro significato. L'esempio perfetto per sottolineare quanto quel film, scritto da Ed Solomon su soggetto di Lowell Cunningham, sia ancora, e dopo venticinque anni, il film sci-fi più cool di tutti.

TOMMY LEE JONES, WILL SMITH E UN SUCCESSO COMMERCIALE SENZA PRECEDENTI

MIB: Men in Black, usciva nei cinema statunitensi in un bollente 2 luglio 1997, distribuito da Columbia Pictures, lanciando di fatto una moda che avrebbe riscritto le regole del marketing, forte di un successo commerciale da record: ben 589.3 milioni di dollari worldwide, a fronte di un budget di "appena" 90 milioni. Da allora, tutti abbiamo desiderato conoscere le oscure regole cosmiche; volevamo essere bellissimi come l'Agente J di Will Smith (scelto da Sonnenfeld anche perché sua moglie era fan de Il Principe di Bel-Air), oppure risoluti come l'Agente K di Tommy Lee Jones (sapevate che inizialmente aveva dei dubbi sul ruolo, in quanto lo script si discostava troppo dal fumetto?), coppia agli antipodi che fece la fortuna della pellicola, nonché segnò per gli attori un punto di inizio e un punto di partenza nel cinema pop. E poi, alzi la mano chi non desidera avere con sé un neuralizzatore (sì, lo "sparaflasho") capace di cancellare la memoria.

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Men in Black: Will Smith e Tommy Lee Jones
Men in Black: Will Smith e Tommy Lee Jones

BARRY SONNEFELD E LA RIELABORAZIONE (SOCIALE) DEGLI ALIENI

Will Smith, Rip Torn e Tommy Lee Jones in una scena del film Men in Black
Will Smith, Rip Torn e Tommy Lee Jones in una scena del film Men in Black

Se non si considerano i cinecomic, non è un caso che Men in Black sia l'action comedy più remunerativo di sempre, scrivendo una pagina fondamentale nel cinema di fantascienza: Barry Sonnenfeld, prendendo in prestito la serie a fumetti di Cunningham (edita da Aircel Comics, diventata poi Malibu Comics e poi Marvel), progettò Men in Black come se fosse l'anello di congiunzione tra il cinema analogico e quello digitale, tra quello artigianale (Rick Baker e David LeRoy Anderson hanno vinto l'Oscar per il make-up) e quello industriale del green screen, spalancando le porte a una totale rivisitazione del concetto di "alieno", così da strutturarlo in maniera sostanzialmente diversa dall'ispirazione arrivata da Steven Spielberg, rimasto affascinato da Men in Black tanto da esserne produttore esecutivo. È stato lui, infatti, a convincere poi Will Smith ad accettare il ruolo. In fondo, più della colonna sonora iconica di Danny Elfman, più dei suoi due strepitosi Agenti protagonisti, pieni di aggeggi tecnologici, vestiti di tutto punto e con gli orologi Hamilton al polso, è il concetto dell'alieno a essere correlato a qualcosa di estremamente vicino e conosciuto. Per Sonnenfeld, gli alieni - mostruosi, umanoidi, animaleschi e via dicendo - sono dei migranti intergalattici finiti sulla terra per cercare fortuna. C'è chi scappa da un pianeta in guerra, chi vuole ricongiungersi con i propri cari, ci sono addirittura i turisti. Ovviamente, tra essi, criminali e pericolose creature intente a portare uno stellare sconquasso. Una rielaborazione cinematografica e sociale non indifferente, considerando l'appeal mainstream di Men in Black.

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UNA LOCATION COOL PER UN FILM COOL: MANHATTAN

E quale poteva essere, se non New York City, il miglior porto galattico? Seguendo il concetto del sogno e dell'impossibile, e senza essere asfissiato dagli obblighi delle fan base, Barry Sonnenfeld seguendo le tracce di un'enorme blatta aliena (che prende in prestito la pelle dello sventurato Edgar alias Vincent D'Onofrio), parte dal confine messicano per finire proprio a Manhattan, in una stazione segreta che pare essere l'aeroporto JFK, con tanto di agenti della Border Protection. Dovete sapere che l'estetica, che gioca un ruolo cruciale in Men in Black, è stata curata dallo scenografo Bo Welch (Il Colore Viola, Ghostbusters II e un BAFTA per Edward Mani di Forbice), che si è ispirato all'architettura di Eero Saarinen, dando alle location dei MIB un tono Anni Sessanta incredibilmente accattivante. Gli effetti visivi della Industrial Light & Magic hanno fatto il resto, ma il fascino del film risiede nelle angolature riconoscibili che Barry Sonnenfeld ha dato a Men in Black: c'è un legame profondo tra la messa in scena e la cornice, e girando per Manhattan si ha davvero la sensazione di (ri)trovarsi al centro di un avamposto dove coabitano più o meno pacificamente uomini e extraterrestri, con i MIB che agiscono in gran segreto per mantenere saldo l'equilibrio. Potere dei cult movie, potere della suggestione, eppure è proprio questo il bello del cinema: farci credere in qualcosa di (im)possibile.

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Tommy Lee Jones e Will Smith in un'immagine promozionale del film Men in Black
Tommy Lee Jones e Will Smith in un'immagine promozionale del film Men in Black

IL FASCINO DEI MIB PER UN FILM (ANCHE) SULLE SCELTE PERSONALI

Non c'è dubbio che Men in Black sia da considerare uno dei blockbuster per eccellenza (a proposito, la VHS certificata THX fece il boom di vendite e noleggi nel Natale 1997), tanto da inaugurare un fortunato franchise: un discreto sequel datato 2002, un ottimo terzo capitolo uscito nel 2012 e, ahinoi, pure un dimenticabile spin-off del 2019. Tuttavia, sotto la coltre ultra-pop, si nasconde parallelamente un film sulle scelte personali, e sul coraggio di intraprendere strade tutt'altro che facili. Se l'intenzione di Sonnenfeld era realizzare un film che intendesse gli alieni come dei rifugiati dalle preponderanti capacità sportive, artistiche e politiche inseriti nella collettività umana (Elvis, Stallone, Madonna, Michael Jackson e George Lucas sono tra quelli che Men in Black considera degli alieni sotto mentite spoglie!), c'è un messaggio di fondo che avvolge gli umori dei MIB. In particolar modo l'Agente K, stanco di essere della sua solitudine. Una solitudine dettata dalla scelta di essere al di sopra di ogni regola e legge, che però gli ha impedito di vivere una vita normale, fatta di relazioni, amori, amicizie. E allora la domanda che non ti aspetti, e che tutt'ora continua ad arrovellarci la testa dopo aver (ri)visto il film, scambiando dubbi e prospettive: accettereste di "sparire" in cambio dei segreti cosmici?

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