Nella filmografia di Bong Joon-ho nessun titolo è mai uguale al precedente. Tra i tanti ed essenziali autori del nuovo cinema coreano, il regista è quello che più di altri si avvicina per curiosità, ambizione e diversità all'eclettico talento kubrickiano, spaziando puntualmente tra i generi ed evolvendo e ampliando la propria cifra stilistica, sempre riconoscibile seppure arricchita, differente, migliorata e centrata sull'obiettivo filmico del momento. La sua prima prova risale al 2000, proprio a ridosso del nuovo millennio, quando confezionò Cane che abbaia non morde, una commedia dark dalle vibrazioni thriller che sancì l'inizio dell'esplosiva carriera di Joon-ho, tendenzialmente giocata sempre al rialzo.
Da lì a poco passarono appena tre anni prima dell'arrivo del suo secondo lungometraggio, un vero capolavoro del cinema coreano ancora oggi considerato da molti uno dei film più intensi, importanti e riusciti dell'autore. Memorie di un assassino è in effetti un'opera che si dimentica difficilmente, tanto per la magnifica regia di Joon-ho quanto per le atmosfere e l'argomento trattato, che oltre ad addentrarsi in uno dei casi più intriganti e misteriosi della Corea capitalista tout court, racconta anche una cultura e una metodologia poliziesca completamente agli antipodi da quella occidentale, figlia dei suoi tempi e comunque a cavallo di un cambiamento sistemico quasi radicale. L'arrivo del film su Infinity+ è un'ottima occasione per parlare dei motivi che rendono Memorie di un assassino un film stratificato e imperdibile.
Aria di cambiamento
Non è soltanto la Corea a vivere una transizione culturale, ma il mondo. In Europa il disastro di Chernobyl è il primo tassello del domino che condurrà poi alla caduta dell'URSS e del Muro di Berlino, mentre negli Stati Uniti d'America scoppia lo scandalo Irangate che getta più di un'ombra sulla presidenza Reagan. In tutto ciò i tentacoli del capitalismo cominciano a serrarsi attorno a Seul, modificando il volto della metropoli sudcoreana nonostante la povertà dilagante e un ampio scarto di ricchezze tra classi sociali. Le province di campagna assorbono lentamente il colpo del progresso e usi e costumi decennali se non addirittura secolari si rivelano difficili da cambiare o eradicare del tutto. È il caso della polizia locale di Hawaseong, nella provincia Gyeonggi, letteralmente "l'area che circonda la capitale" e di conseguenza la prima investita da questa inarrestabile aria di mutamento socio-economico.
È proprio in queste zone che tra il 1986 e il 1991 entra in azione il primo serial killer della storia coreana, un quarto di secolo dopo la nomenclatura ideata dai profiler John E. Douglas e Robert K. Ressler (recuperate Mindhunter su Netflix) e appena un anno dopo la scoperta dell'impronta genetica nel DNA che rivoluzionerà totalmente metodi d'indagine e scientifica. A Hawseong si procede però secondo standard investigativi del tempo tra torture dei sospettati, false testimonianze e un certo e diffuso abuso di potere da parte delle autorità, comunque considerato più che normale e, anzi, il giusto deterrente contro la criminalità. Il solo contraltare di giustizia e modernità è rimesso in capo a Seo Tae-yun, investigatore inviato da Seul per "sistemare" i metodi violenti e farseschi del collega Park Du-man (Sang Kang-ho), detective vecchio stampo e convinto di poter riconoscere un assassino solo con uno sguardo.
Memorie di un assassino, la recensione: caccia al serial killer nel cult di Bong Joon-ho
Un caso di genere
Mettendo in scena questo clima di transizione culturale e strutturale e giocando con astuzia con i topoi del poliziesco e del thriller convenzionale, quasi a parodiarli con un certo realismo dark (espandendo e confermando di fatto i criteri cardine della sua cifra stilistica già visti nel film d'esordio), Bong Joon-ho mette in scena uno straordinario spaccato della Corea di fine anni '80, focalizzando il tiro cinematografico solo e soltanto sul genere, trasformando la sua opera seconda in un meraviglioso caso studio. Al netto di uno straordinario miglioramento artistico, con momenti di grande cinema votati alla tensione, controcampi di rara maestria e costruzione di scene d'inseguimento ad alto tasso di pathos e adrenalina, Memorie di un assassino è un film che stuzzica l'attenzione dello spettatore e risveglia un certo interesse atavico per il poliziesco d'atmosfera, parafrasando insieme maestri di spessore come William Friedkin e David Fincher senza imitazione, invece con arguzia, visione, rispetto e personalità.
Un film, Memories of Murder, che fa tesoro delle tante regole del thriller adattandole con intelligenza al contesto del racconto e alla grammatica dell'immagine, elaborando una delle più affascinanti panoramiche storico-contemporanee mediate dal genere che il cinema coreano abbia mai partorito. Non bastasse, il finale del lungometraggio resta una magnifica invenzione meta-cinematografica in grado d'insediarsi ancora più a fondo nelle emozioni del protagonista e al contempo rompere la quarta parete per scavare negli occhi del pubblico. In quel momento è lo sguardo dell'autore che scandaglia l'attenzione dello spettatore, in cerca di risposte che non avrà mai, perso in dubbi e supposizioni proprio come Park Du-man, un uomo nuovo - come la sua Corea, d'altronde - in cui riemergono errori e rimpianti del passato, tutti impressi nell'iride, tutti impressi in pellicola.