Matt Dillon confessa di sentirsi un po' troppo giovane per un premio alla carriera. L'attore americano omaggiato dal Festival di Locarno con il Lifetime Achievment Award spiega di avere "23 anni", poi scoppia in una risata di fronte al pubblico svizzero accorso per incontrare il protagonista di cult come Rusty il selvaggio, I ragazzi della 56° strada e Drugstore Cowboy. Spigliato, sorridente, loquace, Matt Dillon dimostra meno dei suoi 58 anni e anche se ha alle spalle collaborazioni con autori come Francis Ford Coppola, Gus Van Sant e Lars von Trier, ammette di guardare soprattutto al futuro e si augura di tutto cuore che la sua carriera prosegua a gonfie vele.
Dopo essersi imposto come sex symbol negli anni '80, Matt Dillon si è riciclato come attore brillante per poi tuffarsi in progetti rischiosi come Crash - Contatto fisico e il recente La casa di Jack. Il divo non sa cosa lo aspetta in futuro, ma ammette: "Mi piace cogliere le opportunità inattese. Oggi è difficile sapere cosa farò, non ho progetti specifici e non amo le sorprese, ma l'inatteso a volte può essere grandioso".
Coppola il distruttore, Dennis Hopper e James Caan mostri sacri
La carriera di Matt Dillon è iniziata a 14 anni, quando il regista Jonathan Kaplan lo ha scelto per Giovani guerrieri. "La mia famiglia non era nello show business, la ragione per cui sono finito nel film è stato il mio entusiasmo" spiega Dillon descrivendo i divertenti aneddoti del set. "Kaplan mi chiamava Marlon Brando perché non avevo studiato recitazione, era un regista unico, veniva dalla scuola di Roger Corman, battibeccavamo tutto il tempo, ma è stato molto divertente". Solo pochi anni dopo questa prima esperienza, è arrivata la collaborazione con Francis Ford Coppola per I ragazzi della 56° strada: "Coppola aveva una tale energia, ho imparato tantissimo lavorando con lui, ero curioso su come funzionasse la regia e lui era un patriarca, una figura paterna, ma anche un grandissimo innovatore. Amava girare tantissimi ciak per trovare quello perfetto".
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Sono tanti i mostri sacri che hanno incrociato il cammino lavorativo di Matt Dillon e che lui ama ricordare, da Dennis Hopper, "un mostro sacro e un grandissimo amico. Ricordo che il metodo lavorativo di Coppola lo distruggeva perché lui era un istintivo", allo stakanovista Stellan Skarsgaard fino a James Caan, "un attore grandioso, aveva un grande senso dello humor, ridevamo molto, era bello averlo accanto. Era così legato al suo lavoro, la sua è stata una grande perdita". Nonostante il legame strettissimo con Hollywood, Matt Dillon ha scelto di vivere nei dintorni di New York, dove è nato e dove oggi risiede con la fidanzata italiana Roberta Mastromichele, con cui fa coppia fissa da otto anni e che è presente anche a Locarno. "In realtà la California è la mia seconda casa" specifica. "Passo molto tempo lì e ho vissuto lì il lockdown, ma mi sento più a casa a Est. Hollywoood è una fucina produttiva, ma la ispirazione artistica non proviene da lì, proviene dal mondo".
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La fine del grunge e l'esperienza liberatoria sul set di Lars von Trier
Ripensando ai cineasti che hanno segnato la sua carriera, Matt Dillon ne parla solo in termini positivi e ricorda con affetto le collaborazioni con Gus Van Sant per Drugstore Cowboy e Da morire: "L'approccio di Gus è molto low key, ma originale e unico. Era molto sicuro in quello che faceva. Incoraggiava il cast a improvvisare, provava moltissimo, lavorare con lui è un'avventura". L'attore ricorda poi la collaborazione con Cameron Crowe per Singles - L'amore è un gioco, un film che ha segnato una generazione e che oggi acquista valore anche per il fatto che molti dei rappresentanti della scena grunge sono scomparsi. "All'epoca le band che compaiono nel film, Pearl Jam, Soundgarden, non erano ancora famose. Il grunge è esploso dopo l'uscita del film. Oggi è triste pensare che Chris Cornell, Layne Staley e Kurt Ccobain non ci siano più. Tra l'altro il film preferito di Cobain era Giovani guerrieri. Ma la loro musica vivrà per sempre".
Tra tutti gli autori con cui ha collaborato, Matt Dillon si accende quando si nomina Lars von Trier e ci tiene a difenderlo dalle critiche piovute spesso e volentieri sul suo eccentrico temperamento: "Lars è un grande regista, molto innovativo. C'è chi dice che sia pazzo, ma in realtà è profondamente onesto e molto legato al suo lavoro. Sul set de La casa di Jack abbiamo sviluppato una relazione di fiducia. Non ho sempre capito cosa faceva, aveva un grande senso of humor, è stata un'esperienza molto creativa e gioiosa. Ciò che davvero ho amato è stata la libertà che lui crea sul set. Gli attori possono dimenticare le regole e vedere cosa accade, Lars registra anche le prove, la potenza del fallimento è parte del processo e questo è molto liberatorio".
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L'esperienza da regista: ciò che conta è l'emozione
Dopo essere stato diretto da tanti registi di talento, nel 2002 Matt Dillon ha scelto di spiccare il grande salto debuttando come regista con City of Ghosts, thriller che racconta la fuga nel Sudest asiatico di un assicuratore di New York dopo una truffa. "Ho dei bellissimi ricordi di quel lavoro" spiega. "Era tanto tempo che volevo fare il regista, ho parlato con molti registi e ho cercato di costruite una storia semplice ispirandomi agli autori che amo. Volevo creare un mondo, ho impiegato sette anni a scrivere la sceneggiatura. Fare il film è stata una benedizione anche se la lavorazione in Cambogia è stata durissima. Ci sono stati vari incidenti, alcuni membri della troupe sono finiti in ospedale, all'epoca mi dicevo 'Spero che ne valga la pena'. Ma ho imparato molto lavorando con un grande cast e usando anche tante persone del luogo".
Per il momento Dillon ha ripetuto l'esperienza della regia con un progetto completamente diverso: "Visto che sono masochista ho deciso di fare un documentario musicale, El Gran Fellove, sul musicista cubano Francisco Fellove. Non avevo alcuna esperienza, ma è stato bellissimo perché ho imparato che ciò che conta di più nel documentario è l'emozione,. Le persone non sono interessate ai dettagli, vogliono essere coinvolte a livello emotivo".