Durante questo weekend, Milano è stata protagonista della seconda edizione del grande festival di Vanity Fair, ovvero Vanity Fair Stories. Durante questo fine settimana di incontri, talk, proiezioni in anteprima e performance, aperti a tutti, c'è stata anche l'opportunità di un incontro ravvicinato con una star dal calibro internazionale: Matt Dillon. L'attore newyorkese si è raccontato al pubblico partecipante all'evento, partendo dai suoi primi passi di attore fino ad arrivare alla sua carriera di regista, senza dimenticare la sua passione per il disegno.
L'attore, conosciuto al grande pubblico per aver recitato in film come I ragazzi della 56a strada, Rusty il selvaggio, Tutti pazzi per Mary, Tu, io e Dupree e La casa di Jack, ha ricevuto anche un riconoscimento (uno specchio realizzato dall'art-designer milanese Giampiero Romanó) perché, con il suo talento artistico, e nonostante il mondo in continua evoluzione, "ha continuato a parlare alle nostre emozioni attraversando le epoche, a farci viaggiare con la fantasia, a tenere sempre generosamente un posto libero, per noi, accanto a lui".
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Dai primi passi attoriali al lavoro con registi di primo livello
Matt Dillon è uno di quegli attori che ha iniziato la sua carriera da ragazzino e per un motivo particolare: "Ho cominciato a recitare giovanissimo, avevo 14 anni e la motivazione non è stata tanto un'urgenza particolare o una forma di esibizionismo, ma il potere dei personaggi che ho interpretato, partendo dal primo che era una persona molto interessante e che mi ha ispirato a voler recitare per esprimere tutta la potenza dei personaggi". Dopo il debutto nel mondo del cinema, avvenuto grazie a Giovani guerrieri di Jonathan Kaplan, l'attore ha poi lavorato con Francis Ford Coppola, dando vita a film che gli hanno regalato una notorietà internazionale: "Innanzitutto, la cosa che mi è sempre piaciuta moltissimo è la narrazione, raccontare delle storie ed è quello che facciamo, in fondo. E Coppola per noi era un dio, niente di meno che un dio in terra. Fin dall'inizio ci ha incoraggiati a correre dei rischi, a improvvisare, a lanciarci, ed è molto importante. Quando abbiamo girato I ragazzi della 56° strada io ero molto giovane, avevo diciott'anni, e mi ha incoraggiato a vedere i film di Toshirô Mifune, perché pensava che fosse colui che più mi corrispondeva. E, quindi, mi ha fatto vedere I sette samurai, tutti i film di Mifune in modo da ispirarmi per il mio personaggio. Poi, non avevo finito ancora le riprese di quel film quando mi ha proposto se volevo fare un secondo film con lui, che è stato Rusty il selvaggio, e chiaramente ho accettato con grande entusiasmo. Nel giro di neanche un mese siamo passati dalla fine del primo film all'inizio delle riprese del secondo che, dal punto di vista estetico e narrativo, erano uno opposto dell'altro".
Dopo aver lavorato con Coppola, l'attore ha iniziato a prendere parte di film di enorme successo, lavorando a contatto con registi di un certo calibro come Garry Marshall, Cameron Crowe, Anthony Minghella, i fratelli Farrelly e i fratelli Russo. Ma, tra i registi che lo hanno maggiormente colpito, ci sono Gus van Sant e Lars von Trier. In merito a Gus Van Sant, con cui Dillon ha avuto modo di lavorare per i film Drugstore Cowboy e Da morire, l'attore ha rivelato che "L'approccio era molto, molto diverso da quello di Francis Ford Coppola, anche se per il primo film a cui ho lavorato con lui, Drugstore Cowboy, mi aveva incoraggiato a correre rischi, ad improvvisare, a lasciarmi molto andare. Comunque, una cosa che accomuna un po' tutti i grandi registi con cui ho avuto l'occasione di lavorare è che tutti hanno dedicato sempre moltissime attenzioni ai personaggi".
Riguardo invece al suo lavoro con il regista e sceneggiatore danese "Il motivo per cui ho voluto girare La casa di Jack è stato per lavorare con Lars von Trier, non per interpretare uno dei cattivoni più cattivoni che siano mai esistiti. È stato sicuramente interessante e poi non abbiamo fatto neanche una prova. Non abbiamo mai provato le scene prima, anche se erano decisamente impegnative, molto coinvolgenti. In particolare, una scena che era molto fisica con un'attrice avrei voluto provarla prima: ho chiesto al regista di poterlo fare e lui ha detto 'Va bene, se proprio vuoi facciamo una prova, poi però filmiamo un'altra volta senza fare la prova, perché preferisco così'".
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Da attore ad abile regista
Oltre alla sua eccellente carriera di attore, Matt Dillon ha sempre avuto il pallino della regia. Nel 1999 ha diretto un episodio della serie Oz, per poi realizzare concretamente, nel 2002, il suo primo lungometraggio intitolato City of Ghosts, dirigendo, oltre sé stesso, un cast composto da attori di un certo livello, come James Caan, Gérard Depardieu, Rose Byrne e Stellan Skarsgård. Per il suo terzo lavoro da regista, Dillon ha voluto regalarsi l'esperienza del documentario, realizzando El Gran Fellove (attualmente in fase di post-produzione) e basato sulla vita del musicista cubano Francisco Fellove. In merito al suo primo impatto con il mondo documentaristico, per l'attore e regista "Se mai qualcuno avesse intenzione di avventurarsi sul terreno del documentario, fate attenzione, perché è la cosa più difficile che esista. In questo caso, in particolare, parlavamo della storia di una persona, tutto sommato abbastanza normale, senza niente di particolarmente sensazionale. Quindi, mettere in scena una vita non è affatto semplice. La grande difficoltà è stata la scrittura del film, che avviene in fase di montaggio e continua ad evolversi fino all'ultimo secondo di lavorazione".
Un attore con la passione del disegno
Tra i vari aspetti che caratterizzano la vita di Matt Dillon ce n'è uno molto poco conosciuto: la sua passione per il disegno. L'attore e regista ha sempre avuto questa abilità nel disegno, più che nella pittura, sin da quando era un bambino: "Io ho disegnato per tutta la vita e capita spesso che mi diano del pittore. Più che altro, mi piace molto disegnare: una cosa strana, è che recentemente mia madre mi ha dato un disegno che avevo fatto quando avevo sette anni e mi ha colpito vedere che anche da piccolissimo avevo fatto questo disegno epico, una battaglia tra eserciti di epoche diverse, una specie di Spartacus molto audace, molto epico, una cosa che magari adesso non avrei il coraggio di fare, invece da piccolo mi ci ero lanciato senza paura, anche se i mezzi tecnici non erano un granchè. Quindi, bisogna mantenere questa freschezza della giovane età, dell'infanzia".
L'importanza delle storie e dei personaggi raccontati
La carriera di Matt Dillon ha ormai ha raggiunto la quarta decade e, in questi anni di maturità, l'attore ha dovuto cominciare a fare i conti con il passato e la saggezza: "Da una parte è un gran privilegio aver potuto lavorare, parlare, accumulare esperienze fin da un'età così giovane, dall'altra parte vedo quello che facevo da ragazzino e adesso lo farei in un'altra maniera. La complessità è un pregio che s'impara a gestire con l'età, uno dei vantaggi di invecchiare un po' è che si può gestire meglio la complessità senza rinnegare il fatto che si sono fatte delle cose anche fresche come il disegno che ho fatto a sette anni, e vale lo stesso anche per la recitazione".
In questi quarant'anni sono cambiate tantissime cose, i mondi del cinema e delle serie sono stati protagonisti di diverse evoluzioni dal punto di vista estetico e narrativo, ma "ciò che conta sono sempre le storie e i personaggi che le raccontano. Poi, è chiaro che la maniera in cui verranno fruite e comunicate queste storie cambierà, si evolverà: però, senza le storie, senza i personaggi che le incorporano, non si va da nessuna parte. È un dibattito che abbiamo molto spesso affrontato con i registi, con gli sceneggiatori. Saranno modi diversi di raccontare, ma sono sempre le storie e i personaggi quelli che ci interessano".