In fondo, anche noi abbiamo avuto la possibilità di scegliere. Pillola rossa o pillola blu. Stiamo parlando ovviamente di Matrix Resurrections, il nuovo film di Lana Wachowski con Keanu Reeves e Carrie-Anne Moss, dopo vent'anni nei panni di Neo e Trinity, al cinema dal 1 gennaio. Potevamo scegliere la pillola blu, e non andare a vedere il nuovo Matrix, e cullarci nel ricordo dei primi tre film. O anche, come dicono in tanti, solo del primo. Oppure potevamo scegliere la pillola rossa, e rituffarci nell'universo creato dalle sorelle Wachowski più di vent'anni fa. Ma, come sentiamo dire in Matrix Resurrections, "la scelta è un'illusione". Perché quello che dovevamo fare l'abbiamo sempre saputo. E immergerci in Matrix è un'esperienza alla quale non potevamo rinunciare.
Ed è stata un'esperienza sorprendente e spiazzante. Perché dove Matrix (con i suoi due sequel) era un film solenne, ambizioso, che si prendeva molto sul serio, Matrix Resurrections è un film ironico, giocoso, distaccato, di cui parleremo con qualche anticipazione, quindi attenzione a qualche spoiler se non l'avete ancora visto. È un film metanarrativo che vuole celebrare il mito di Matrix e dichiarare l'impossibilità di replicarlo. E che, entrando nel "sistema" Matrix, coglie l'occasione per raccontare da dentro un altro "sistema", quello di Hollywood. Matrix Resurrections in fondo ci racconta come le Wachowski abbiano vissuto il successo di quel primo, straordinario film. Di come si siano sentite chiedere per anni dei seguiti, di come ad ogni nuovo film, per quanto diverso, ci si sia aspettato da loro un nuovo Matrix, un nuovo effetto speciale. E allora scherzarci sopra, prendere in qualche modo le distanze è forse l'unico modo per rileggere una saga come quella. Il nuovo Matrix perde parte della seriosità dei film originali per usare ironia e intelligenza e, in fondo, per mandare un messaggio diverso.
Questo è il problema delle storie: non finiscono mai
Matrix Resurrections, ambientato 60 anni dopo i fatti dei primi film, ritrova Thomas Anderson, alias Neo (Keanu Reeves), in qualche modo di nuovo intrappolato in Matrix, la realtà fittizia creata dalle macchine. Ma l'ironia della situazione ci appare subito evidente. Thomas Anderson è un game designer, uno dei migliori a livello mondiale. E nel suo studio c'è un premio, quello per il gioco dell'anno 1999, che si chiama Matrix. È un gioco dove, evidentemente, Anderson ha messo molto di suo, di quello in cui crede, quello che gli è accaduto. Ma tutto ci appare chiarissimo quando Neo viene convocato dal CEO dell'azienda in cui lavora che gli comunica che la società che li controlla, che fa capo alla Warner Bros (sì, viene tirata in ballo proprio la Warner, la major che produce e distribuisce Matrix), vuole produrre un nuovo videogame, un seguito di Matrix.
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"Avevi detto che la storia era finita per te" dice il suo capo, interpretato da Jonathan Groff. "Ma questo è il problema delle storie: non finiscono mai. Raccontiamo sempre le stesse storie, con altri nomi". Tutto è molto chiaro, lo è fin troppo. Siamo in un'azienda produttrice di videogame, ma si parla del cinema, e di Hollywood. Della sua ossessione per i sequel, per i reboot, per l'eterno ritorno di franchise, storie, personaggi. Il volere di chi ha fatto nascere le storie e le sente sue conta poco. Conta chi ha i diritti. "Lo faremo anche senza di lei" dice il capo. Il discorso è generale, ma anche particolare. Perché le Sorelle Wachowski, Lana e Lilly (solo la prima firma la regia), si saranno sentite chiedere per anni un seguito, un reboot, una nuova trilogia, qualsiasi cosa che riportasse in vita un franchise di successo come Matrix. Con ironia e con distacco oggi Lana Wachowski non le ha mandate a dire, si è tolta qualche sassolino dalle scarpe. Con la serenità e la consapevolezza di chi ha fatto la storia e sa che probabilmente non può farla più.
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Cosa aveva di speciale Matrix? Ti fregava la testa
I momenti che seguono sono divertenti, ironici, qualcosa che non avevamo mai visto nel mondo di Matrix. È un brainstorming tra i vari creativi della factory di videogame. Ancora una volta il gioco è chiaro e piuttosto scoperto. È un viaggio in una writers' room, nel lavoro di sceneggiatori e registi nel momento in cui decidono di mettere insieme le idee per dare vita a un film, una serie o un gioco. La scena, che forse finisce troppo presto - ma non poteva essere altrimenti - è allo stesso tempo una sorta di autoanalisi per Lana Wachowski e anche il racconto di quello che è stato Matrix per ognuno di noi, per un pubblico vasto, formato da tanti fan per ognuno dei quali il film originale è stato qualcosa. Ognuno ha le sue idee su cos'è stato Matrix, e, in questo caso, su come dovrebbe essere il suo seguito. "Cosa aveva di speciale Matrix? Ti fregava la testa". "Matrix è Mind Porn, è filosofia in lucido". "L'insensatezza non può esserci in Matrix". "È una metafora per lo sfruttamento capitalistico". "È criptofascismo". C'è chi dice che ci vogliono tante, tantissime, pistole. Chi dice che il nuovo Matrix non può essere un reboot. E c'è chi dice che se pensa a Matrix pensa a una sola cosa: Bullet Time (il famoso effetto speciale che fu il marchio di fabbrica del franchise). Il brainstorming si chiude con un trionfale "rivoluzioneremo il gaming di nuovo". Dietro al quale si nasconde, come dicevamo, il peso per Lana e Lily Wachowski di aver girato quel film. Da grandi poteri derivano grandi responsabilità. E allora, chi vuole un nuovo Matrix, o anche semplicemente un loro film, anche diverso, si aspetta sempre tutto questo. Dei messaggi che siano alti, dei concetti che facciano riflettere, un cinema che sia a suo modo filosofico. Un'azione ad alti livelli e sempre originale. E degli effetti speciali sempre all'avanguardia. Non deve essere stato facile, ce ne rendiamo conto, sostenere il successo di Matrix, e andare oltre.
Abbiamo fatto felici i ragazzini
"Ma hai inventato Matrix". "Abbiamo fatto felici i ragazzini". È questo che si dicono Trinity (Carrie-Anne Moss) e Neo, ancora inconsapevoli di essere chi sono, non ancora risvegliati, nel loro primo incontro. Si chiamano Thomas e Tiffany, lui è il game designer che abbiamo conosciuto, lei crea delle moto. Ma da questo dialogo cominciamo a capire un po' quello che Lana Wachowski vuole fare oggi. "Abbiamo fatto felici i ragazzini" vuol dire volare basso, sminuire un po' il mito di Matrix, dire che è solo un gioco, cioè solo un film. Solo in questo modo, togliendo dal piedistallo la sua opera, un artista può andare oltre, andare avanti. "At last", "è stata una lunga attesa" dice Morpheus al primo incontro con Neo. Ma, ci tiene a precisare, nell'originale appariva a una finestra tra i lampi, ora il nuovo Morpheus esce, lo dice proprio lui, "da un cesso". Più tardi vedremo il Merovingio, anche lui cambiato, non più un essere potente e altezzoso, ma un barbone rancoroso per non essere stato incluso nella storia, vaneggiare su un sequel o un reboot che possa includerlo. Questo atteggiamento è in fondo un toccasana, per lo stesso artista che in questo modo può dimostrare di non essere più dipendente dal suo capolavoro e dal successo ad esso legato. Ma è qualcosa che può servire a tutti noi, il pubblico, i fan. A tutti quelli che, una volta dimostrato l'amore per un'opera, pensano di possederla, di poter dire ai creatori cosa fare, cosa non va toccato e cosa si può modificare. Pensate alla nuova trilogia di Star Wars, da Episodio VII in poi. Pensate al rispetto, forse eccessivo con cui è stata ripresa la storia, e alle reazioni che si sono scatenate. Matrix Resurrections va in un'altra direzione. Ci viene in mente una serie come Cobra Kai, che con il film d'origine ha un rapporto dissacrante e ironico.
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Matrix: un classico, un film irripetibile, irriproducibile
Distacco, ironia, sì, ma anche rispetto. Dopo il primo incontro, Neo e Morpheus si ritrovano in un vecchio cinema. Le immagini del primo Matrix - che, grazie al montaggio, a tratti si sono sovrapposte all'azione del nuovo film - ora sono proiettate e scorrono su un telo squarciato che è quel che resta dello schermo del cinema. Ci dicono che sono le immagini del videogame Matrix, e che servono a Neo per prendere consapevolezza di chi è. Ma il fatto che quelle sequenze, ormai iconiche e indelebili, siano proiettate su grande schermo ci vogliono dire che quel primo Matrix è ormai Storia del Cinema, è fissato nell'immaginario collettivo. È un classico, ed è anche un film irripetibile, irriproducibile. Per Lana e Lilly Wachowski, come per chiunque altro. Lo proiettano in alto, in grande, insistono su quelle immagini di vent'anni fa per raccontarci l'impossibilità di rifarlo, che si parli di sequel o di reboot. In tutto questo possiamo leggere il bisogno e la volontà di andare oltre, di omaggiare un mondo e chiuderlo in un cassetto, di voltare pagina. Lana Wachowski ci ha raccontato la sua vita dopo il primo Matrix, ci ha dato quello che volevamo noi fan, e ci ha anche detto di non chiederle più niente. Non prendersi sul serio è stato l'unico modo per riportare Matrix al cinema, per raccontarci l'impossibilità di replicare un classico. Il finale è aperto, ma anche, se vogliamo, compiuto. Matrix Resurrections non è la ripartenza di una nuova trilogia, è un grande, affettuoso omaggio a vent'anni dall'originale. È una reunion, come quella di Friends, è un racconto del tempo che passa, come quella di Sex And The City. È il nostro modo per celebrare Matrix, per dimostragli il nostro amore. E per dirgli addio.