Per il secondo anno consecutivo, dopo il caloroso battesimo tributatogli nella scorsa edizione, il Torino Film Festival ospita i Masters of Horror, la serie americana che ha accorpato i più grandi registi dell'orrore e su cui abbiamo già speso fiumi di parole, dedicandogli uno speciale. Dodici episodi dai risultati altalenanti - verrebbe da dire deludenti se non fosse per gli acuti di Carpenter, il censurato Imprint di Takashi Miike e per l'episodio di Joe Dante - e già materia di un certo revisionismo critico da trampolino di lancio per la seconda stagione. Ma di fronte all'entusiasmo da stadio che ha accompagnato anche gli episodi di quest'anno, i discorsi stanno a zero. Ulteriore segno di un costante interesse verso il genere e del desiderio di un ritorno ai padri putativi del new horror americano, in un periodo in cui il genere oscilla tra remake, tentazioni mainstream, ma anche finalmente significativi ritorni a tematiche e modalità rappresentative più cruente e disturbanti. Che poi tale desiderio sia stata recepito dal medium teoricamente più nemico dell'horror è un curioso segno dei tempi.
A presentare la selezione dei sei episodi scelti per quest'anno è stato ancora una volta l'ideatore Mick Garris, entusiasta dell'accoglienza torinese e felice di annunciare come l'incredibile scroscio di applausi che l'anno scorso fu tributato a Homecoming di Joe Dante abbia fatto profondamente riflettere e orientato le tematiche dei nuovi episodi. Episodi che saranno anche più concentrati sulla contemporaneità politico-sociale, piuttosto che sul puro soprannaturale, ma che si sono dimostrati nel complesso una pesante delusione. E pensare che l'assaggio torinese sulla carta faceva decisamente ben sperare, bissando la presenza di John Carpenter, Dario Argento John Landis, Dante e Garris stesso, affiancati da Brad Anderson.
La più cocente delusione arriva purtroppo da John Carpenter, autore con Pro-Life di una didascalica riflessione sui pericolosi percorsi del fanatismo religioso, con un episodio di imbarazzante bruttezza, in cui un ingessato Ron Perlman, a diretto contatto con Dio, fa irruzione assieme ai lobotomizzati figli in una clinica per impedire l'aborto della sua bambina, che ha in grembo l'erede di chissà quale mostruosa creatura. Ridicolo oltre ogni modo per sviluppo e soluzioni e di una sconcezza formale sconcertante per gli standard del regista americano, Pro-Life non solo non ha in dote una briciola dell'estetica carpenteriana, ma lancia anche un involontario grido di allarme sulla sua attuale capacità di giudicare il suo operato.
Con Pelts invece Dario Argento conferma che la serie americana per lui è decisamente più un motivo di sfogo per pruriti grandguinoleschi e per mostrare tette, culi e interiora, che di ricerca, se il termine ricerca non appare troppo blasfemo per un regista che sembra sempre meno interessato al cinema. Una storia senza capo ne coda, girata senza un guizzo che sia uno, e se possibile ancora più inconsistente, in quanto a spessore, del Jenifer dell'anno scorso. Pelts è infatti exploitation pura, la cui trama è solo un mero pretesto per girare la cosa più gore della carriera del regista italiano. Capita così di dimenticarsi di Argento e di trovarsi anche a divertirsi a passare in rassegna la serie di truculenti suicidi indemoniati che attraversano l'episodio. Ma è un divertimento che non salva il film dal nulla assoluto in cui versa.
Decoroso e anche piuttosto divertente Family di John Landis, l'unico del lotto a fare meglio dell'anno passato (non che ci volesse molto a superare Deer Woman) con un macabro ritratto dai contorni grotteschi e dal godibile twist in the end. Family racconta di Harold, il buon vicino di casa che ogni americano vorrebbe avere se non sapesse che nella sua cantina si diletta a squagliare con gli acidi essere umani, al fine di farsi una famiglia di calorosi teschi. Finché i suoi piani non vengono turbati dal nuovo vicinato. Probabilmente l'episodio più riuscito dei sei presentati, nonostante Landis purtroppo continui a apparire un regista che ha veramente poco di nuovo da dire.
Controverso invece The Screwfly Solution di Joe Dante che racconta di un misterioso virus che trasforma tutti gli uomini in psicotici assassini pronti a uccidere ogni donna che incontrino. Il risultato ovviamente sarà l'estinzione della razza umana. Concentrato a ripetere l'Homecoming di un anno fa, Dante mette troppa carne al fuoco, dirigendo un episodio non privo di alcuni spunti di interesse (validi più per un pilota di una potenziale serie tv che per un mediometraggio) ma debole negli sviluppi e decisamente tirato via nel finale. Esilarante comunque il super applauso suscitato dalla presenza di Jason - Brandon Beverly Hills Walsh - Priestley. Meno acclamata ma più consistente la presenza del grande Elliot Gould.
Sounds Like di Brad Anderson, per quanto sia indubbiamente l'episodio più curato sotto il profilo della costruzione narrativa e della messa in scena, genera un atroce dubbio sul giovane regista americano. Fosse mai che l'autore di Session 9 e L'uomo senza sonno non sia capace che di raccontare sempre la stessa storia? Questa volta siamo alle prese con un uomo ossessionato dalla morte del suo giovane figlio e dotato di un udito soprannaturale che gli rende la vita impossibile. Il lungo percorso verso la pazzia del protagonista - fatto di ossessive soggettive audio e di esplosioni di ira sempre più incontrollabili fino al prevedibile finale - irrita più che inquietare, tanto che alla comparsa dei titoli di coda si tira un sospiro di sollievo.
Solita inutilità-inoffensività per l'episodio di Mick Garris, che rimane la persona più cordiale del pianeta cinema ma che forse farebbe bene a rinunciare a dirigere. Valerie on the Stairs è una scialba e abusata metafora della scrittura sotto forma di continuo gioco tra realtà e finzione, attivata all'interno di un fantomatico hotel per scrittori mai pubblicati. Curiosa l'idea di partenza, banalmente smarrita nei territori del già visto. Gustosa la presenza di Christopher Lloyd.