A novant'anni suonati ma con l'energia di un adolescente Mario Monicelli è sempre tra noi. Ultimo baluardo di un cinema italiano morto, sepolto e resuscitato, tra mille difficoltà produttive, con il suo ritorno dietro la macchina da presa per Le rose del deserto, racconto ironico dell'occupazione libica durante la seconda guerra mondiale. Il film è stato presentato a Roma attraverso le parole del regista stesso, insieme a tutto il cast artistico in un incontro dai toni spassosi, con il povero Alessandro Haber a fare le spese dell'ironia di Michele Placido e dello stesso Monicelli.
Maestro, perché ha scelto di tornare a parlare di guerra e proprio di quel periodo storico?
Mario Monicelli: Perché quest'ultima guerra, persa come tutte le altre, non è stata quasi mai materia di trattazione cinematografica e trovavo molto stimolante confrontarmici.
In realtà bisogna aggiungere che in Italia ci siamo occupati poco perfino della resistenza, sicuramente meno di quanto sarebbe necessario. Comunque, leggendo il libro del mio compaesano e quasi coetaneo Mario Tobino mi sono molto commosso e ho trovato notevoli spunti per il film, ritrovando anche le mie esperienze tra le pagine del suo libro.
Quanto è stato preso dal libro di Tobino e quanto da Giancarlo Fusco, entrambi ispiratori della sceneggiatura?
Mario Monicelli: Alcuni elementi del libro di Tobino sono stati per forza di cose omessi; su tutti, certe sue considerazioni sul romanticismo del vivere nel deserto. Quelle atmosfere non ci sono nel film perché il deserto in realtà è squallido: c'è solo della sabbiaccia sporca e non ci sono neanche le dune! Invece, il personaggio interpretato da Sanguinetti è tutto di Tobino e non lo avrei mai tolto perché si adeguava perfettamente al tono farsesco del mio film. Il personaggio del Maggiore è preso invece da Giancarlo Fusco: una sorte di intellettuale incapace di dare comandi; completamente fuori dal suo contesto, passa il tempo a scrivere alla moglie e ha nel suo bagaglio un libro di Poliziano con cui si consola. Messo addosso a Haber poteva sembrare fuori dal comune e invece era perfetto, visto che anche se lui si spaccia per un uomo di grande potenza è solo un debole, un vinto!
E'stata dura girare un film del genere?
Mario Monicelli: Molto! La situazione era obiettivamente difficoltosa, specie per le condizioni fisiche e ambientali. Ma va anche detto che si è creata un atmosfera da vero commilitone, tanto che troupe si divertiva, anche se io ero un po' preoccupato. E' stato questo spirito a farci superare qualsiasi difficoltà.
Com'è stato per gli attori lavorare con Monicelli?
Michele Placido: C'è poco da dire: Monicelli è la storia del cinema italiano e la sorpresa più grande è stata quella di trovarsi in mezzo al deserto a imparare ancora molto da una persona di novant'anni, in un mestiere infame e faticoso come quello del cinema, dove già a sessanta girare un film diventa uno sforzo incredibile. Vederlo ancora con questa energia, capace di arrabbiarsi e di rimproverarci è stata una grande lezione su come si fa questo lavoro.
Giorgio Pasotti: E' stato fantastico! Io semplicemente non ho mai aperto bocca per due mesi e mezzo per sfruttare questa grande occasione. Fare un film con Monicelli è come entrare nell'Oxford del cinema e fare un corso super estensivo. Superati i timori iniziali io e tutta la troupe ci siamo sciolti e abbiamo capito che lo spirito leggero e ironico che il maestro comunica facendo il suo lavoro è determinante. E' una grande lezione per chi pensa a questo mestiere in termini vitali.
Alessandro Haber: Nonostante anche a film finito, Mario continui a inveire contro di me, sfruttando il mio masochismo, io mi ritengo onorato di aver lavorato ancora con lui. E' stato il solito splendido viaggio con Monicelli e spero di farne ancora.
Come avete lavorato sul personaggio del prete interpretato da Michele Placido?
Michele Placido: Semplicemente è uscito fuori dall'entusiasmo e dalla volontà di cui si è parlato; dal desiderio di dare tutto. Il personaggio ha un carattere dotato di una naturale autorità morale e di un carisma molto forte, ma allo stesso tempo possiede un'italianità fortissima, trascendente, fuori dalla gente comune; come se portasse in sé gli archetipi della nostra cultura. Per dargli vita non mi sono curato dei classici stereotipi comportamentali e della tecnica, piuttosto ho preferito dedicarmi alla lettura di biografie su personaggi storici, da cui si trae grande ispirazione.
Maestro, il film pare abbia avuto una complicatissima fase di pre-produzione. Si è mai sentito tradito da qualcuno e impaurito dal pensiero di non farlo?
Mario Monicelli: Tradito no assolutamente, perché mai? Mettere in piedi un film del genere, girare tutto in esterno in Africa, filmare la guerra e i mezzi militari, gestire le comparse non è una cosa che si organizza facilmente e non pretendevo che una volta sceneggiato il film si facesse per forza. Io non ho mai disperato, sapevo che era finanziariamente difficile ma ho sempre sperato che si facesse; se poi la cosa non fosse stata possibile non ne avrei fatto una tragedia, non sarebbe da me. E poi di film ne avevo già fatti solo sessantaquattro!
Esiste una sorta di continuità stretta tra l'Italia della guerra e quella contemporanea. Trova che siamo molto diversi?
Mario Monicelli: Non so se siamo cambiati o se siamo diversi, ma non credo. Penso che gli italiani siano ancora quelli che si vedono nel film e non lo dico in modo negativo. Non è che gli italiani debbano cambiare, anche perché quando questo è successo siamo solo peggiorati. Noi siamo gente generosa, che non si perde mai d'animo. Io sono cresciuto coi racconti della prima guerra e vissuto la seconda ed erano le stesse storie. Riuniti in esercito gli italiani sono sempre gli stessi: positivi, felici, ottimisti e se devono morire muoiono senza farla tanto lunga. Non vogliono essere né eroi, né missionari. Forse se li facessimo esprimere come vogliono vivremmo in una società migliore, ma il problema è che siamo governati da persone che ci vogliono dire sempre tutto quello che dobbiamo fare. Questa è la società del benessere a tutti i costi, e il dominio dell'economia è orrendo e spietato; ci impedisce di esprimerci e di comportarci da uomini.
Qual è il suo film di guerra preferito?
Mario Monicelli: Direi Orizzonti di gloria di Kubrick: è quello che mi è rimasto più impresso in memoria e mi ha più toccato. E' il classico film di cui si dice "vorrei averlo fatto io", è quello giusto, nonostante io prediliga questa componente ironica a cui tengo molto.