Di un regista come Mario Bava, maestro del cinema italiano tuttora ingiustamente relegato nella serie B, non si parlerà mai abbastanza. Ricordarlo, nel giorno in cui avrebbe compiuto 100 anni, diventa quasi un obbligo. Ciò è vero soprattutto in un periodo come questo, in cui nell'industria cinematografica italiana non ci sarebbe mai spazio per uno come Bava; e in cui i migliori talenti del cinema di genere sono costretti all'underground, all'invisibilità, a un cinema indipendente che significa scarsissimi mezzi, tanti rischi e la "gloria" solo presso un ristretto circuito di appassionati. Per tutti questi registi, Mario Bava (con la sua perizia tecnica, la sua strabordante inventiva, ma anche l'umiltà e l'autoironia che emergeva dalle poche interviste rilasciate) resta un faro.
La data della sua morte (il 1980) è simbolica, anche perché segna l'inizio di un decennio che avrebbe visto il progressivo sfaldarsi di quella scena cinematografica, in cui artigianalità e inventiva andavano insieme, che aveva fino ad allora caratterizzato la nostra produzione. L'inizio della fine, in fondo, cade proprio nell'anno in cui Mario Bava se n'è andato. Dal "pittore per fotogrammi" che era, con quella costruzione dell'inquadratura, e quei giochi di luci, colori e atmosfere, che lo hanno reso così celebre, lo ricordiamo con una galleria di immagini dei suoi film più importanti; quelli che, nella sua grande (e variegata) produzione, hanno segnato i momenti fondamentali della sua carriera, e del cinema di genere italiano tout court.
Mario Bava, visioni di un pittore della cinepresa (11 foto)
La maschera del demonio
E' il 1960, e dopo una lunga serie di lavori come direttore della fotografia (con autori quali Mario Monicelli, Steno e Dino Risi) Bava esordisce alla regia. L'ispirazione è un racconto breve di Nikolai Gogol intitolato il Vij, che offriva un'insolita visione del vampirismo. Bava, con questo film, inaugura ufficialmente il gotico italiano, con un uso inedito delle luci e delle scenografie, e un'atmosfera lugubre che cela temi (come la necrofilia e il doppio femminile) che in seguito caratterizzeranno il filone. Barbara Steele, fino ad allora sconosciuta, diventerà nel giro di pochi anni un'icona del genere.
Ercole al centro della terra
Il momentaneo insuccesso (poi superato dal successivo statuto di classico) de La maschera del demonio, spinge Bava a puntare sul peplum per il suo secondo lungometraggio. Anche qui, il regista inserisce nel genere la sua inventiva e il suo gusto per i trucchi, contaminando il filone con quello dell'horror e facendo scontrare Ercole con un esercito di zombie. Il risultato è un ottimo incasso (398 milioni di lire) e l'apprezzamento in Italia e all'estero. Nel ruolo del nemico dell'eroe, la star della Hammer Christopher Lee.
La ragazza che sapeva troppo
Dopo il gotico, è la volta del giallo all'italiana. Bava, qui, apre un altro filone che poi si rivelerà fecondo, e farà la fortuna dell'allievo Dario Argento. Il titolo cita un classico di Alfred Hitchcock, il film è un thriller incentrato su una ragazza giunta a Roma dall'America, che assiste a un omicidio sulla scalinata di Trinità dei Monti. Il film ha vari sconfinamenti in atmosfere da commedia sentimentale, ma il clima di base resta cupo e onirico, esaltato dalla splendida fotografia in bianco e nero.
I tre volti della paura
Tre episodi, che i credits danno come ispirati a Guy de Maupassant, Aleksej Tolstoj e Anton Cechov, in realtà in larga parte farina del sacco di Bava e dei co-sceneggiatori; introdotti da un Boris Karloff memore del suo ruolo di narratore nella serie televisiva Thriller. La produzione comprende capitali americani e francesi, le storie spaziano dalle ambientazioni retrò de I Wurdalak e La goccia d'acqua a quelle contemporanee de Il telefono. Il finale, con Karloff che svela uno dei più classici trucchi artigianali di Bava, è esemplificativo dell'atteggiamento autoironico del regista verso il suo lavoro.
La frusta e il corpo
Il gotico si tinge di pulsioni sadomasochistiche: il barone Kurt Menliff ha un rapporto di dominazione con la cognata Nevenka, che viene da lui perseguitata anche dopo la sua morte, per mano di un ignoto assassino. La presenza di Christopher Lee nel ruolo del sadico barone non basta ad evitare l'insuccesso al film, sottoposto all'epoca a varie censure per le sue sequenze esplicite. Riscoperto e divenuto in seguito un cult, come molti dei film di Bava.
Sei donne per l'assassino
Il ''giallo'' si colora e si fa feroce, grafico. Eliminata qualsiasi parentesi sentimentale, gli omicidi si segnalano per il loro sadismo, per l'enfasi sul sangue e su una vera e propria fenomenologia della morte. In un atelier di moda, un killer senza volto fa strage di modelle, eliminando le sue vittime in modi sempre più efferati. Personaggi e manichini si confondono, l'intreccio perde importanza di fronte al balletto di morte messo in scena da Bava. Il look dell'assassino (impermeabile nero e guanti) diventerà un vero e proprio topos per il genere.
Terrore nello spazio
Tra i generi toccati dal regista, non poteva mancare la fantascienza. Genere di cui, nella sua variante italiana, il film di Bava è considerato tra le migliori espressioni. Un'astronave atterra su un pianeta sconosciuto, rispondendo a una richiesta di SOS: poco dopo, i suoi membri vengono posseduti ad uno ad uno da una forza malvagia, che ne domina il corpo e la mente. Le similitudini col successivo Alien sono evidenti; Bava, con la consueta maestria, riesce a ricreare, con modellini e trucchi artigianali, un mondo freddo, minaccioso e inquietante.
Operazione paura
Il titolo (pensato dalla produzione per riecheggiare successi quali Operazione San Gennaro) promette poco, ma il film rientra sicuramente tra i migliori di Bava. Un medico giunge in un remoto paese, per l'autopsia sul cadavere di una ragazza morta in circostanze insolite, e scopre una maledizione originata dallo spettro di una misteriosa bambina. I raffinati cromatismi colpiscono l'occhio, mentre la sequenza della piccola Melissa Grasps che gioca con la sua palla è esplicitamente citata da Federico Fellini nel suo Toby Dammit, episodio del collettivo Tre passi nel delirio.
Diabolik
E' il 1968 e si respira aria di ribellione alle regole, anche e soprattutto a quelle artistiche: e anche un film-fumetto, realizzato su commissione per il produttore Dino De Laurentiis, finisce per risentirne. Bava trasforma le strisce delle sorelle Giussani in un'esplosione di pop art, futurismo, kitsch, con inserti fortemente autoironici, e una trama episodica che fa da contorno agli sperimentalismi ottici e scenografici. Le autrici del fumetto non gradirono, il successo fu limitato, lo stesso regista fu insoddisfatto per le limitazioni (soprattutto in termini di violenza) imposte dal produttore. Resta un classico e, a suo modo, uno dei film-manifesto del periodo.
Reazione a catena
Il giallo all'italiana, infine, diventa slasher, e consegna alla carriera di Bava uno dei suoi film più influenti sul cinema che verrà. Una baia incontaminata, oggetto di mire speculative di ogni tipo, è teatro di una catena di delitti sempre più efferati. I personaggi si uccidono a vicenda in una danza macabra che diventa emblema di un'umanità cinica e amorale; la graficità dei delitti verrà ampiamente copiata e riutilizzata (in primis da franchise come quello di Venerdì 13). Censurato e rimaneggiato, verrà mostrato nella sua versione integrale solo nel 2004, sui canali del network Sky.
Cani arrabbiati
Il capolavoro “maledetto”, girato da Bava nel 1974 e rimasto invisibile (causa fallimento della casa di produzione) per oltre un ventennio. Da un racconto di Ellery Queen, la fuga di tre banditi, che prendono in ostaggio una donna, un uomo e un bambino, diventa un vero e proprio viaggio all'inferno. Una crudezza inusitata e un senso di sporcizia, depravazione e violenza pervadono tutta la pellicola, restituendo il cinema del regista a un realismo spietato. Anche di questo film esistono vari cut, ma la sua versione definitiva sarà mostrata solo nel 2004, attraverso i canali Sky.