Una voce come quella di Maria Callas nasce probabilmente ogni cento anni. Forse anche di più. Qualcosa di così stupefacente da toccare corde che trascendono il sentimento e l'emotività, per arrivare a qualcosa di più grande, misterioso. Quasi divino. Sono pochissimi gli artisti in grado di fare questo. La Callas era una di loro. Eppure anche lei ha dovuto lottare tutta la vita con le due parti di se stessa: "la Callas", appunto, la divina, e Maria, ragazza greca povera sfruttata da molti, perfino sua madre. E soprattutto dall'uomo che ha amato: quell'Aristotele Onassis che ha deciso di rubarla non soltanto a suo marito, ma a tutti noi, mettendosi tra lei e il canto. Dopo Jackie Kennedy e Diana Spencer, Pablo Larraìn ha deciso di concludere il trittico dedicato a grandi icone del '900 proprio con la leggendaria soprano, interpretata da Angelina Jolie, intitolando il film Maria. Facendo quindi una scelta precisa.
E, ancora una volta, proprio come nelle pellicole precedenti, Maria, presentato in concorso all'81esima Mostra del Cinema di Venezia, è un racconto di fantasmi: Larraìn ci porta nella sua casa di Parigi, ormai un mausoleo, per assistere agli ultimi giorni della donna. La Callas, e soprattutto la sua voce, se n'erano già andati da tempo. Ad accudirla i domestici, Ferruccio e Bruna, interpretati da Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher, che, come li definisce la stessa cantante, le hanno fatto da padre, madre, fratello, sorella, figlio e figlia. Gli affetti per la voce più bella del secolo, come la definisce il regista, sono stati infatti molto complicati.
Il padre era rimasto a New York, dove Maria Callas è nata, nel 1923, mentre lei e la sorella Iakinthi (Valeria Golino) erano tornate in Grecia con la madre, trascorrendo lì il periodo della Seconda Guerra Mondiale. L'unico figlio maschio, Vasili, il secondogenito, morì prima della nascita di Maria. E pare che, proprio perché femmina, la madre abbia sempre provato rancore per la figlia più giovane, perché non le ha permesso di sostituire il maschio, che tanto voleva. Qualcosa che ha scavato nel profondo di Maria Callas: nonostante i successi, non ha mai smesso di cercare l'adulazione delle persone, avendo sempre in mente le parole della genitrice, che le diceva di essere grassa, brutta e immeritevole di amore. Insomma una voce umana, molto umana, quella della Maria di Pablo Larraìn, segnata dal dolore. E, come dice la protagonista: "La musica nasce dalla sofferenza: la felicità non ha mai prodotto una bella melodia".
Alla ricerca della canzone umana di Maria Callas
Ed è quindi sul dolore che Larraìn si concentra: quello provocato dalla perdita e dalla malattia. Ormai magrissima e dipendente da farmaci, Maria Callas a 50 anni aveva compromesso il proprio fisico e la voce che l'ha resa immortale. Ma soprattutto era entrata in una profonda depressione, che l'ha spinta a isolarsi dal mondo. Una tigre però, come si definisce lei stessa, non può rinunciare all'essere ribelle: la sceneggiatura di Steven Knight si concentra su questo aspetto in particolare, sul tentativo di trovare la propria voce. Almeno alla fine. Che è paradossale per qualcuno la cui esistenza è stata basata proprio sul canto.
Costretta a esibirsi per i soldati tedeschi dalla madre, ostacolata dal compagno Onassis che voleva spingerla ad abbandonare la lirica, Maria decide di uccidersi cantando per sé: "L'opera è la mia vita e non c'è ragionevolezza nell'opera", dice a chi vorrebbe convincerla a curarsi. Questa unione totale tra l'arte e la vita è ciò su cui evidentemente Pablo Larraìn si identifica di più e, per sottolineare il proprio dialogo con l'artista, le fa immaginare di parlare con un giornalista a cui raccontare la sua storia. Vuole girare la sua biografia Maria Callas, andando alla ricerca dei ricordi e soprattutto della "canzone umana", come la chiama lei. Non importa se questo film è solo frutto della sua immaginazione: "Cosa è reale e cosa no è affar mio", dice. E così anche nel raconto di Larraìn.
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Angelina Jolie è da Oscar
In un gioco di simmetria perfetta, Larraìn fa dialogare la sua Jackie, qui solo nominata, con la sua Maria. Nel mezzo c'è Diana. A differenza delle altre due però, diventate icone soprattutto per la propria posizione sociale, che ha finito per ingabbiarle nonostante i privilegi donati loro, Maria Callas si è imprigionata da sola. Lo sottolineano gli spazi in cui il regista ritrae le tre donne: mentre Jackie Kennedy e Diana Spencer sono quasi sempre confinate in spazi chiusi, la cantante vaga per le strade di Parigi, circondandosi sì di fantasmi e illusioni, ma in piena libertà. È lei a decidere. Pensare che una donna così straordinaria si sia autodistrutta è qualcosa che fa malissimo. E allo stesso tempo la rende una figura tragica e comprensibilissima. Proprio come le eroine che ha interpretato sui più grandi palcoscenici del mondo.
Per portare sullo schermo questo dramma ci voleva una grande attrice. Se, su carta, Angelina Jolie, per la scarsissima somiglianza con la vera cantante, non sembrava la scelta più adatta, su schermo tutto cambia. Erano anni che l'interprete non brillava così al cinema. Dai tempi di Changeling di Clint Eastwood. I movimenti delle mani, i respiri e soprattutto gli occhi di Jolie sono magnetici e strazianti. Nel finale, in un crescendo di dolore, è difficile non commuoversi. Questa potrebbe essere la prova migliore di tutta la sua carriera.
"Un brano non dovrebbe mai essere perfetto: andrebbe interpretato nel momento, diverso ogni volta", dice sempre la divina. Nel canto d'addio di questa artista e donna straordinaria, che ha vissuto d'arte e d'amore, c'è tutto. Rimarrà con voi a lungo.
Conclusioni
Con Maria Pablo Larraìn chiude la sua trilogia dedicata a tre icone del '900: dopo Jackie Kennedy e Diana Spencer, si fa travolgere da Maria Callas. Figura tragica e ribelle, dotata di una delle voci più straordinarie di sempre, ma che si è autodistrutta. A interpretarla Angelina Jolie in una prova da Oscar. Forse la migliore della sua carriera.
Perché ci piace
- La scrittura di Steven Knight.
- La gestione degli spazi di Pablo Larraìn.
- L'interpretazione da Oscar di Angelina Jolie.
- L'interpretazione di Pierfrancesco Favino.
- La cura di set e costumi.
Cosa non va
- Qualcuno potrebbe accusare Larraìn di aver fatto un film troppo accessibile, che abbraccia il pubblico. Per noi è un punto di merito.