Margherita Ferri scrive e dirige. Tra i suoi lavori ci sono il film horror The Nest (2019), di Roberto De Feo, e le serie Bang Bang Baby e Zero. Proprio in quanto figura chiave della serialità italiana, è stata chiamata a parlarne alla 23esima edizione del Sudestival, che quest'anno si è svolto dal 27 gennaio al 17 marzo tra Monopoli, Polignano a Mare, Fasano e Bari.
Ferri ha tenuto, il 10 marzo, la Masterclass dal titolo "Grammatica e sintassi delle serie tv". Per lei non è stata la prima volta al Sudestival: "Sono andata nel 2019, con il mio primo film: Zen - Sul ghiaccio sottile. L'accoglienza è stata molto bella. Mi piace la struttura di questo festival: crea occasioni di confronto tra gli autori, il pubblico e soprattutto gli studenti. È interessante per noi e molto utile per i ragazzi. Monopoli poi è molto bella. Mi ha fatto quindi piacere che mi abbiano richiamato per la masterclass."
In particolare la regista e sceneggiatrice ha parlato di Bang Bang Baby, serie Prime Video di cui ha diretto due episodi. In caso Amazon sia nei paraggi: stiamo aspettando una seconda stagione, non distruggete i nostri sogni. Ferri ha portato al festival alcune scene, spiegando come sono state realizzate. Avere una regista che racconta come si porta una scena dalla carta a quello che poi si vede sullo schermo è un'esperienza preziosa per chi vuole capire come si fa e come sta la serialità italiana. Misuriamo quindi anche noi la temperatura dell'industria seriale nostrana proprio grazie a Margherita Ferri.
Cinema vs Serie tv: una battaglia molto italiana
In Italia oggi chi si occupa di spettacoli e ha superato una certa età guarda ancora con snobismo le serie tv, ritenendole intrattenimento di serie b rispetto al cinema. Per fare un complimento alla serie, molti dicono "sembra un film". Quanto è importante invece sottolineare che le serie tv hanno un linguaggio autonomo?
È sempre stato un linguaggio che ha tanto in comune con il cinema, perché è un linguaggio audiovisivo. Hanno la stessa grammatica. Però è chiaro che sono tipi di narrazione e di produzione diversi. Nel cinema c'è una distinzione tra cinema autoriale, più legato al mondo artistico, in cui il regista esprime una propria visione in maniera totalmente libera, e cinema commerciale, in cui il regista è meno autore e deve rispondere a dei committenti. In quel caso non racconta una storia personale, ma deve collaborare con un produttore.
Per quanto riguarda le serie tv è assurdo fare una graduatoria della qualità: perché una serie, fin dal primo sviluppo, nasce se c'è un network disposto a mandarla in onda e quindi a pagarne la realizzazione. È un prodotto che nasce intrinsecamente legato al distributore. Non si può pensare a una serie tv senza tv! Che sia un network o una piattaforma. In questo caso il percorso creativo e il linguaggio si adattano al mezzo su cui verrà fruito il prodotto audiovisivo.
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Forse in Italia le serie sono ancora accusate di scarsa qualità perché per tanti anni abbiamo avuto solo fiction. Prodotte principalmente da Rai e Mediaset, che magari non avevano tanta attenzione per la ricerca linguistica tanto quanto il cinema. La situazione da noi è cambiata con l'arrivo di Sky. E dopo con quello delle piattaforme, che hanno garantito sicuramente una maggiore varietà. Per quanto riguarda la qualità dipende poi da prodotto a prodotto.
L'importanza delle sceneggiatrici e delle registe
Restando in ambito Prime Video, alla conferenza stampa di LOL 3 si è parlato di quanto sia importante avere sempre più sceneggiatrici donne e soprattutto donne in posizione di potere, come chi decide sulle produzioni. A che punto siamo in Italia secondo te?
Su questo tema stiamo lavorando con i Cento Autori, con il gruppo pari opportunità in cui c'è anche Paola Randi. L'anno scorso a Venezia e a Roma abbiamo fatto vari incontri, cercando di confrontarci sia con le autrici che con i rappresentanti dei network. Hanno partecipato Rai, Mediaset, Sky e Netflix. E stiamo organizzando un incontro con i produttori. È fondamentale che ci sia una pluralità di sguardi. Tra gli sguardi autoriali includo sia la sceneggiatura che la regia: chi crea storie e immagini necessariamente ha un punto di vista. Un punto di vista che necessariamente è politico. Deriva dalla propria esperienza. Anche se si lavora su un progetto scritto da altri, o si scrive un progetto su commissione, necessariamente quella mano e quella penna rappresenterà una visione del mondo. Quella dell'autore o dell'autrice. Non significa che si scrive un pamphlet politico ogni volta che si prende la penna in mano, ma è chiaro che per realizzare un film o una serie bisogna fare una marea di scelte e quelle scelte restituiscono un'immagine di qualcosa. Rispecchiano la rappresentazione sociale di uomini, donne, immigrati, persone trans. Quello che noi produciamo è una rappresentazione del mondo: e dobbiamo sapere di avere questa responsabilità. Perché quando viene visto entra a far parte della collettività.
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La teoria della rappresentazione è una cosa che adesso va molto di moda, soprattutto in questa nuova ondata di critici e critiche social, ma in realtà deriva da studi di sociologia e di comunicazione che esistono dagli anni '70. È giusto che tutti abbiano il diritto e la possibilità di esprimere una propria visione del mondo. Per me questa non è una moda: è necessario che ci siano tante sceneggiatrici e registe. E, ancora non ci sono ma ci saranno, sceneggiatori e registi di seconda generazione, che daranno un sguardo diverso, da italiani con origini etniche differenti.
È giusto che ci siano sguardi diversi da quello predominante fino a pochissimi anni fa. Ed è necessario che questi sguardi abbiano posizioni di potere: altrimenti diventa quella cosa che in America chiamano "il token". Ovvero, ad esempio, quando in una squadra di sceneggiatura si mette una donna per evitare delle critiche e non perché si sia particolarmente interessati a quello sguardo o a quella visione. Non ha senso mettere una sceneggiatrice in writing room se gli altri sceneggiatori non la ascoltano.
Rappresentazione e pubblico
A proposito di rappresentazione: spesso il pubblico reagisce molto male all'introduzione di personaggi di differente etnia e orientamento sessuale in storie che raccontano fatti storici, o che sono considerate intoccabili, come ad esempio Bridgerton o Il Signore degli Anelli. Siamo noi Italiani che siamo indietro o sono le piattaforme che forzano la mano?
Che cosa vuole il pubblico? È la domanda che affligge soprattutto chi produce le serie. Più del cinema: vedo molta più libertà nel cinema rispetto alla televisione. Secondo me una storia scritta bene piace. Poi la protagonista può essere gialla, verde o blu, ma quello che conta è la qualità della storia. Se la storia fa schifo puoi metterci quello che vuoi, ma il pubblico non la seguirà.
Nel caso specifico, Netflix è una piattaforma che ha una linea editoriale molto chiara, proprio come la Rai, che fa Don Matteo e Un passo dal cielo. Netflix ha dei valori aziendali che includono. È un'azienda privata e segue la sua linea editoriale, che comprende anche ucronie, storie in costume rivisitate in chiave "fantainclusiva". Che non è detto che tutti i pubblici capiscano o debbano capire: bisogna sempre ricordarsi che Netflix produce per 190 paesi. Il loro scopo è vendere più abbonamenti ed è chiaro che non tutti i prodotti possono essere apprezzati in modo uguale ovunque. Loro raccontano "il mondo di Netflix", che non rispecchia il singolo paese di produzione. E il "mondo di Netflix" ha una coerenza editoriale: estetica, narrativa e di rappresentazione.
Poi il pubblico ha i suoi gusti, a volte imprevedibili. Pensiamo al successo di Squid Game, che è una specie di Mai dire Banzai horror. Ed è vero che in alcuni casi c'è del "tokenismo" chiaro, ma va bene: quella è la visione del mondo che vuole raccontare Netflix.
Rivoluzione criminale
In Italia la rivoluzione in tv spesso l'hanno fatta le serie con protagonisti criminali, tra i prodotti che esportiamo di più. Da Gomorra a Bang Bang Baby, fino a The Good Mothers, che ha vinto un premio a Berlino e uscirà su Disney+, si è cominciato a raccontare il crimine organizzato anche dal punto di vista delle donne. È un passaggio importante?
Questi sono casi particolari, perché in realtà sono storie vere: non si è ribaltato un punto di vista, semplicemente non era mai stato raccontato. In questo caso c'è il tema dell'invisibilità di queste donne, che racconta tanto del valore dell'immaginario. Bang Bang Baby è tratta da un libro che racconta una storia vera, rivista in chiave di genere e anche molto grottesca. Il personaggio di nonna Lina è esistito, si chiamava Maria Serraino ed era soprannominata "nonna eroina".
Se prima si sono fatti soltanto film e serie su uomini criminali è perché viviamo in un mondo in cui si dà valore soprattutto all'opera degli uomini. Pensiamo alle calciatrici: le donne hanno sempre fatto sport, ma il valore che si dà allo sport maschile e a quello femminile è molto diverso. Oggettivamente non ha alcun senso che se una donna calcia una palla quel gesto vale 5 euro e se invece lo calcia un uomo vale 10mila. Raccontare le storie anche delle donne aiuta a dare un valore uguale.
La rinascita del genere
Una caratteristica comune di voi giovani autori italiani nati dagli anni '80 in poi è la voglia di riscoprire il genere. Da almeno dieci anni si dice sempre: " in Italia il genere è rinato". È davvero così?
Io non lo volevo fare il genere! Invece poi eccoci qui. Ho 39 anni, vengo da una generazione di registi, registe, sceneggiatori e sceneggiatrici che si è assolutamente rotta le palle del fatto che il cinema italiano venisse descritto dal pubblico come lo definisce Stanis di Boris. Purtroppo però questa triste definizione ce la siamo anche meritata: proprio a livello tecnico, perché secondo me a livello di storie e spunti abbiamo avuto sempre buone intuizioni. E per fare il genere serve la tecnica: se vedi il cinema anni '80 e '90 italiano, a parte Tornatore che girava con gli Americani, ti metti le mani nei capelli. È tutto doppiato, il suono fa schifo, la fotografia insomma... Quelli bravi, scenografi e direttori della fotografia, andavano in America. Il genere non era qualcosa che l'industria e i produttori italiani pensavano si potesse fare e lo disincentivavano totalmente.
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Secondo me la nostra generazione, per fortuna, ha visto arrivare Paolo Sorrentino e Matteo Garrone, che hanno portato una nuova ondata di possibilità. Cinema autoriale che però prende tanto dal genere. Matteo Rovere ha fatto la sua casa di produzione proprio su questo assunto: possiamo fare genere e farlo bene. Ed è vero: siamo molto capaci e in 15-20 anni è cambiato tutto. Totalmente: non dobbiamo più fare solo il Neorealismo, o il dramma borghese, il film scarno intimista solo di dialoghi.
La commedia invece è stato sempre uno dei nostri cavalli di battaglia, ma negli ultimi anni aiutami a dire aiuto! Purtroppo ha perso tantissime delle sue penne migliori. Oggi pochi autori riescono a farla bene: mi viene in mente solo Paolo Virzì.
Io ho fatto The Nest con Roberto De Feo: lui sta lottando tanto per fare horror in Italia. Adesso stiamo scrivendo un altro film. Lui ha lottato molto proprio contro il pregiudizio: è bravissimo e si è preso sulle spalle il peso di fare qualcosa che in Italia non faceva nessuno da tanti anni. Soprattuto di farlo bene, trovando persone in grado di farlo: come Machinarium, che fa gli effetti speciali. È un'industria che sta rinascendo.
Rapporto con il pubblico e ambizioni internazionali
Un grande problema del nostro cinema è che ha perso da tempo il rapporto con il pubblico. E anche che solo in pochi hanno davvero ambizioni internazionali. Perché secondo te?
Secondo me l'ambizione internazionale non si è mai persa. Però è più visibile nel cinema d'autore: Alice Rohrwacher fa dei film completamente autoriali, intimisti e vince premi a Cannes. Sorrentino uguale. E poi fa anche la serie sul papa per HBO. L'internazionalità in Italia è legata sicuramente al cinema d'autore, perché è riuscito a mantenere un prestigio che si decide all'interno dei festival. Noi produciamo tantissimi film d'autore molto belli.
Per quanto riguarda l'internazionalità dei film italiani di genere è più complesso: come competitor abbiamo gli Americani, che hanno dei budget con cui non si può competere. Loro fanno gli Avengers, film da centinaia di milioni di dollari. I nostri budget sono dieci volte più bassi.
Poi dipende di quale genere parliamo: rifare gli Avengers o i Transformers non ha senso. Se invece si fa una rivisitazione dei supereroi in chiave locale, come ha fatto Gabriele Mainetti con Lo chiamavano Jeeg Robot, è molto più interessante del cercare di copiare gli altri. È come se noi cercassimo di fare i film di Bollywood! Non so quanto potrebbe funzionare.