Tra le mille polemiche piovute su questa edizione del Festival di Roma, la prima dell'era Muller, la sezione Cinemaxxi ha messo d'accordo tutti. Il pubblico più attento e cinefilo ha popolato un nuovo spazio 'cinematografico', l'auditorium del Maxxi, mescolandosi ai visitatori del museo e godendo di opere interessanti e fuori dagli schemi tipicamente commerciali che hanno ricevuto un coro unanime di consensi da parte della critica. A chiosa della sezione è stato presentato un film collettivo a episodi realizzato nell'arco di otto anni, Mundo Invisível, pellicola di produzione brasiliana composta da 11 cortometraggi. A firmare i singoli corti, accomunati dal tema dell'invisibilità, ma assai diversi per forma e contenuto, dodici cineasti internazionali riuniti sotto il patrocinio di Leon Cakoff che del progetto è l'ideatore. Cakoff, padre della Mostra Internazionale di Cinema di San Paolo, che ha influenzato generazioni di cineasti suedamericani, ha contattato gli amici artisti spingendoli a dire la loro sul tema. Così da Wim Wenders al compianto Theo Angelopoulos, da Guy Maddin all'anziano Manoel De Oliveira, passando per Maria De Medeiros, Beto Brant e Cisco Vasques, Lais Bodanzky, Jerzy Stuhr e Atom Egoyan, i registi hanno declinato la loro personale concezione di invisibilità nel progetto che parla anche italiano grazie alla presenza di Gian Vittorio Baldi e Marco Bechis. Abbiamo incontrato Bechis nella suggestiva cornice del Maxxi per parlare dell'opera collettiva, del suo corto, intitolato Tekoha, e del suo concetto di impegno civile nel cinema.
Marco, come è nata l'idea di realizzare Mundo Invisivel?
Marco Bechis: Questo è il secondo progetto collettivo ideato da Leon Cakoff con la moglie Renata De Almeida. Per tutta la sua vita Leon è sempre stato animato dalla voglia far dialogare i registi, di provocarli spingendoli a forzare la loro arte. Nel 2008 mi trovato a San Paolo per presentare La terra degli uomini rossi - Birdwatchers, alla seconda anteprima dopo il passaggio alla Mostra di Venezia. Leon mi ha contattato per spingermi a fare un corto seguendo l'esempio di De Oliveira che aveva già girato il suo. In Brasile alloggiavo in un hotel che, di fronte a sé, aveva un parco. Ho scoperto che il parco che vedevo, e che mi ricordava l'infanzia perché ho vissuto in Brasile quando avevo 7 anni, era in realtà un pezzo di foresta. Così è nata l'idea del mio corto e ho girato il tutto rapidamente con una minitroupe trovata sul posto.
Sì, ho avuto l'intuizione di riprendere l'arrivo di Ambrosio e degli altri indios nel parco, la scoperta della foresta e il contrasto con la civiltà moderna in cui gli abitanti di San Paulo si confrontano con un popolo 'invisibile' per eccellenza. Nel finale ho chiesto ad Ambrosio come avrebbe reagito di fronte a un uomo che lo fermava per la strada per chiedergli se era un indio e lui ha tirato fuori la sua battuta meravigliosa che conclude il mio corto. L'invisibilità sociale degli indios è un dato di fatto in Brasile, ma anche in Argentina e in Cile. Quando ero piccolo avevo una governante indigena, ma lei si presentava a tutti dicendo di essere spagnola perché si vergognava della sua origine.
Poche settimane fa i Guarani-Kaiowà hanno lanciato un appello doloroso chiedendo di essere uccisi tutti e di essere sepolti nelle proprie terre che gli sono state progressivamente tolte dai latinfondisti.
Sì, il loro è un grido d'aiuto perché in Sud America non c'è alcun interesse nei loro confronti. E' la stessa situazione che si ripropone in Italia nei confronti degli immigrati, di chi vive nelle nostre periferie 'invisibili'. Magari ci interessiamo di ciò che accade in Mali, ma non guardiano cosa si nasconde nelle baraccopoli fuori Roma.
Nel tuo cinema hai scelto spesso di mostrare la realtà storica attraverso la trasfigurazione. In Tekoha hai usato le voci incredule dei brasiliani, stupiti di fronte alla presenza degli indios, ma non è la prima volta che scegli una rappresentazione non prettamente realistica per mettere in scena il vissuto dei tuoi personaggi.
Nei miei film ho tentato di sempre di raccontare la realtà attraverso l'espressione artistica. Per esempio in Figli - Hijos ho cercato di deviare l'attenzione dal dramma dei genitori mettendoli sullo sfondo perché non mi interessava mostrare la loro sofferenza, e ho tentato di tradurre la confusione di un figlio che scopre una verità così drammatica sul suo passato attraverso alcune scene simboliche, come quella della passione per il volo, che il ragazzo scoprirà essere genetica. Il focus del mio lavoro non è mostrare il virtuosismo degli attori, ma trovare la migliore espressione creativa per tradurre sentimenti in immagini. Gli attori diventano un mezzo, un veicoloso di emozione.
I cortometraggi che vanno a costituire Mundo Invisivel sono molto diversi tra loro. Quale è stata la tua reazione di fronte al film completo?
E' stata molto positiva. Ho avuto una sensazione di libertà totale di fronte all'opera. Ci sono i corti che mi piacciono di più e quelli che mi piacciono di meno, ma questo è normale. Il confronto tra registi diversi è l'unico modo di fare cinema. Oggi questo confronto non c'è più. Ognuno lavora per conto suo e quando incontra gli altri scambia solo qualche parola di cortesia. Io sento molto la mancanza di quella riflessione collettiva sul mezzo che c'era negli anni '60.
Non lo so. Starà a i produttori e ai distributori decidere, ma io spero che il film arrivi in sala perché così il pubblico potrà avere un assaggio del cinema di tanti autori diversi.
Garage Olimpo e Figli - Hijos mostravano diversi aspetti della dittatura argentina. Pensi di aver detto tutto quello che c'era da dire sull'Argentina?
Sulla dittatura sì. Per parlare ancora dell'Argentina dovrei prima tornare a vivere là e non è detto che ciò non accada. Anche se sono passati vent'anni dalla fine della dittatura, l'Argentina è un paese ancora in subbuglio e servirà altro tempo per consolidare i meccanismi democratici.
Cosa pensi della possibilità di un cinema civile in Italia?
Il cinema civile per me non è un cinema politico, ma un cinema fatto politicamente. Io non ho condiviso il tentativo di Romanzo di una strage di distorcere alcune realtà storiche usando un argomento che ci tocca tutti per compiacere il pubblico. Fare un film su Piazza Fontana travisando i fatti e manipolando i personaggi non è fare cinema civile e in Italia sono i molti film che soffrono di questi difetti. Il cinema civile è un cinema responsabile e completamente indipendente. Non dico di essere riuscito a ottenere questo risultato in tutti i miei film, ma questa è sempre stata la mia prima preoccupazione.
(Intervista realizzata con la collaborazione di Stefano Coccia)