Artigianale fin dal titolo. Questo emerge da Manodopera (in originale Interdit Aux Chiens Et Aux Italiens), il film d'animazione scritto e diretto da Alain Ughetto vincitore di numerosi premi e ora al cinema con Lucky Red. La storia della famiglia del regista di quando a inizio '900 si trasferì dall'Italia alla Francia, attraversando le Alpi in un lungometraggio animato: un racconto che strizza l'occhio all'attualità e che è anche una sorta di dialogo-intervista con la nonna, che gli narra l'odissea familiare.
Proprio per l'identità del film ha scelto la tecnica della stop-motion, come ci ha raccontato su Zoom: "Permette di esplicitare quella che è l'importanza del lavoro manuale. Mio nonno era un grande bricolere, faceva tante cose con le mani, era bravissimo, è una capacità, un talento che ha trasmesso a mio padre e lui a me. Ho cercato di raccontarlo in questo film da una generazione all'altra. Hanno partecipato tantissime mani, che sono venute dal Portogallo, dalla Svizzera, dall'Italia. Tante mani insieme per realizzare il film che avete visto. Scenografie e personaggi sono stati creati a Rennes in due o tre mesi, i costumi sono stati forse la cosa più complicata, il team era di 25 persone a Rennes e 19 a Valence. Post produzione ed effetti speciali sono stati fatti in Italia ma durante la pandemia quindi in modo virtuale a distanza, così come la colonna sonora. Le mani dei pupazzi simbolicamente sono quelle che si sono maggiormente danneggiate durante le riprese e delle quali quindi abbiamo dovuto costruire più copie".
L'origin story del film e degli Ughetto
Un film autobiografico e molto personale, come dicevamo, nato proprio da un bisogno del regista: "Mio padre mi raccontava di un paesino in Italia in cui tutti portavano il nostro cognome. Questa storia mi aveva sempre intrigato fin da bambino ma poiché né io né mio padre parlavamo italiano era rimasta da parte. Poi quando lui è morto ho voluto recuperare le fila e mi ha incuriosito scoprire di Ughettera in Piemonte, cioè la 'Terra degli Ughetto', e venire a conoscenza della storia dei miei nonni, di quando si trasferirono in Francia. Avevo sentito cugini e lontani parenti e ho raccolto le loro testimonianze per quanto riguardava la parte francese. In Italia invece mi sono imbattuto in un libro che si chiama Il mondo dei vinti di Nuto Revelli, in cui non c'erano esattamente le testimonianze dei miei parenti ma di chi comunque aveva vissuto quel periodo e l'odissea che aveva dovuto affrontare, tra guerre e miseria". Una storia personale eppure universale, come si evince da un cartello che si vede ad un certo punto del film, ovvero 'Non sono ammessi cani e italiani'. "Quello era un cartello che veniva esposto in Francia, in Belgio, in Svizzera e ha caratterizzato purtroppo un'epoca. Ci tenevo a mostrarlo e a costruirci intorno una scena. Mi sono messo nei panni dei miei nonni, mi sono chiesto come avessero potuto sopportare di arrivare in un posto e leggere quelle parole. Il razzismo oggi è ancora tristemente tra noi, i migranti sicuramente non sono ben accolti né in Italia né in Francia. La storia purtroppo tende a ripetersi".
Una storia che non sempre è facile raccontare ai propri figli. Dice Alain Ughetto: "È stato molto difficile trovare delle testimonianze dirette perché mio padre non aveva voglia -lo capisco- di parlare di ciò che aveva vissuto come capita a molti sopravvissuti all'Olocausto. Allora ho provato a fargli fare la domanda da un'amica mentre eravamo al ristorante e sono riuscito a scucirgli qualcosa, anche se molto poco, se non quanto doloroso fosse stato. So solo che quella notte ebbe un sonno molto agitato". Una storia personale che in versione animata in stop-motion acuisce forse la propria forza narrativa, grazie alla suggestione e alla delicatezza delle immagini: "In effetti è un linguaggio che permette di andare più verso la poesia, mantenere una certa distanza, volevo raccontare una storia di tre generazioni di migranti. Attraverso la storia del singolo parlare della collettività". Una storia fatta proprio anche per la discendenza degli Ughetto: "Ho imparato da dove vengo ed è una cosa che ho voluto fare sia per me che per i miei figli e per i miei nipoti. È importante sapere da dove si viene per capire dove si andrà dopo".
Nel lungometraggio il regista è co-protagonista in questo dialogo-intervista con la nonna, al punto che la sua mano appare continuamente: "Io sono il nipote quindi non sono sicuramente un osservatore neutro e imparziale. Sono parte integrante della storia e anzi è grazie alla loro fatica se io oggi sono qui. In questo modo volevo mostrare loro rispetto e la mano rappresenta la mia maniera di raccontare qualcosa che per me era anche una grande storia d'amore". Le testimonianze che si vedono nel film sono di tutta la famiglia allargata, come conferma il cineasta, non solamente del nucleo più stretto, raccolte tra Francia e Italia. Non manca l'elemento ironico sul Belpaese e gli stereotipi che spesso si porta dietro, come il cibo e il gesticolare. "In effetti ho un nonno italiano ma la mia italianità si ferma lì, i miei genitori si sentivano francesi. Però la mia curiosità intellettuale e i miei studi mi hanno avvicinato alla cultura, al cinema, alla commedia italiana. Quando ho deciso di fare questo film ho scelto di non essere pesante pur raccontando una storia triste e tragica, un umorismo elegante un po' alla Ettore Scola. Per me è il tratto distintivo del cinema italiano. Titoli come Scopone scientifico, Brutti, sporchi e cattivi, La strada, sono quelli che hanno nutrito la mia immaginazione".
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Superstizione, religione, condivisione, immigrazione
La religione e la superstizione sono due elementi frequenti in Manodopera ma fanno sempre parte dell'assetto culturale dell'epoca, come conferma Alain Ughetto: "Mio nonno non amava particolarmente il clero e, visto che le famiglie erano molto numerose a quel tempo, si diceva che se almeno uno fosse diventato prete non avrebbe avuto problemi economici e sarebbe stato sereno per tutta la vita. Nei paesi come quello del film c'erano persone come tutte le altre ma tacciate di stregoneria. Forse semplicemente più povere, più inusuali. Succedeva soprattutto nei paesini, tanto francesi quanto italiani". La pellicola parla anche del concetto di condivisione in un'epoca di difficoltà e povertà, che forse oggi si è un po' perso: "Sicuramente racconto di una comunità che si aiuta, anche una volta emigrati quando hanno trovato lavoro soprattutto nelle costruzioni. A quel punto ci sono stati vari movimenti degli operai che si sono organizzati tra di loro per cercare di difendere i propri diritti. La solidarietà è importante, oggi la maniera di condividere è cambiata con le nuove tecnologie, sarebbe bellissimo che non si perdesse questo spirito". Sarebbe importante anche ragionare sul fenomeno dell'immigrazione, oggi caldissimo e attualissimo: "Forse un governo ideale dovrebbe partire a monte e analizzare perché tante persone lasciano un determinato posto in cerca di fortuna. Provare ad aiutarli lì nei Paesi d'origine. Come in Africa che avvengono addirittura tra uno Stato e l'altro".
La durata esile di Manodopera e la colonna sonora
Il lungometraggio dura poco più di un'ora, un'utopia oggigiorno: "È stata una scelta, soprattutto per una storia raccontata in questa maniera non poteva essere altrimenti. Non tanto per ragioni produttive, ma proprio narrative. Per trovare i finanziamenti per questo tipo di progetti è importante avere una sceneggiatura solida e io ho la fortuna di avere un amico produttore con cui ho già realizzato due film che condivide la mia visione e ama finanziare film diversi tra loro. Siamo infatti sul punto di realizzare il terzo". La colonna sonora di Nicola Piovani è il fiore all'occhiello del lungometraggio, con cui si conclude l'incontro con il regista: "Conoscevo il suo lavoro ed è stato un sogno poterlo avere perché volevo proprio lui per accompagnare musicalmente la mia storia. All'inizio è rimasto sorpreso perché non aveva mai realizzato la colonna sonora per un film d'animazione ma poi ha accettato la sfida con piacere. Mia nonna era italiana ma nel momento in cui è arrivata in Francia ha voluto essere 'più francese delle francesi' quindi non parlare la lingua d'origine. Anche se dentro di lei rimaneva italiana pur non volendolo dare troppo a vedere. Nicola è riuscito a trasporre tutto ciò in musica. Magnifico".