No, aspetta, ci sono... New York era la sua città, e lo sarebbe sempre stata.
Lo skyline di New York, il ponte di Brooklyn, le strade e i quartieri di Manhattan, Central Park, il Guggenheim, il Radio City Music Hall, le prime luci dell'alba e la Rhapsody in Blue di George Gershwin, in tutta la sua potenza orchestrale. Tre minuti di inquadrature fisse e di stacchi netti, fra lirismo metropolitano (con tanto di fuochi d'artificio sopra i grattacieli) e frammenti di vita quotidiana (passanti, scolari, ragazzi che giocano a basket, perfino sacchi dell'immondizia): il prologo di Manhattan, accompagnato dalla voce fuori campo di Woody Allen, costituisce a suo modo una meravigliosa ouverture, uno degli incipit più giustamente celebri nella storia della settima arte. Un'autentica dichiarazione d'amore rivolta da Allen alla propria città: quella città "mitizzata smisuratamente" che, nei maldestri tentativi di scrittura di Isaac Davis, diventa "una metafora della decadenza della cultura contemporanea" ("Non sarà troppo predicatorio?").
Il capolavoro disconosciuto di Woody Allen
Manhattan debutta nelle sale americane il 25 aprile 1979, e l'entusiasmo riservato al film è pari a quello che, esattamente due anni prima, aveva accolto il precedente capolavoro di Woody Allen, Io e Annie. Nel 1979 Woody ha quarantatré anni, quasi la stessa età del suo alter ego nella pellicola, l'intellettuale Isaac Davis; il successo trionfale di Io e Annie, la sua "opera della maturità", lo ha consacrato fra i nuovi, grandi autori del cinema americano, mentre neppure un anno prima ha dimostrato di possedere anche un finissimo talento di scrittore drammatico con Interiors, il titolo più ambizioso, atipico e spiazzante che abbia realizzato fino a quel momento. Manhattan lo riavvicina ai territori di Io e Annie, ma attraverso una formula del tutto originale che però lascia perplesso lo stesso Allen.
Non è certo un segreto il disappunto provato dal regista, e ribadito in più occasioni, nei confronti di un film considerato una pietra miliare della sua produzione: da subito Woody bolla Manhattan come un fallimento, al punto da arrivare a supplicare la United Artists di non distribuirlo affatto, offrendosi di dirigere gratis il suo prossimo lavoro ("A questo punto della mia vita, se questo è il meglio che riesco a fare, non dovrebbero darmi soldi per fare film"). Eppure, critica e pubblico dimostreranno di pensarla diversamente: non solo Manhattan si rivelerà il secondo film più visto nell'intera carriera di Allen (sedici milioni di spettatori in sala negli USA, dietro solo ai diciassette di Io e Annie), ma si guadagnerà un posto nell'immaginario collettivo che conserva ancora oggi, a partire dal romanticismo infinito di una delle locandine più belle di sempre.
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New York, I love you
La New York di Manhattan è cristallizzata in una dimensione quasi atemporale, accentuata dalle suggestioni jazz delle musiche di Gershwin e dallo stupefacente bianco e nero di Gordon Willis: un processo di 'sublimazione' ancora più evidente rispetto alla città rappresentata in Io e Annie. Ma l'amore per la Grande Mela non è l'unico trait d'union tra i due film: Isaac Davis, autore comico per la televisione con aspirazioni frustrate da romanziere, è una figura speculare a quella di Alvy Singer, che a sua volta è un personaggio dalla matrice fortemente autobiografica. Se Io e Annie ripercorreva le tappe della love story fra Alvy/Allen e la Annie Hall di Diane Keaton (il cui vero nome è proprio Diane Hall), Manhattan è costruito invece sul rapporto fra Isaac e la diciassettenne Tracy, interpretata dalla semi-esordiente Mariel Hemingway e ispirata a Stacey Nelkin, giovanissima attrice con cui Allen aveva appena avuto una breve relazione.
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Eppure Manhattan non è una commedia romantica in senso tradizionale, così come non lo era neppure Io e Annie, in cui Woody si era già adoperato a destrutturare e rivoluzionare il genere adottando una narrazione frammentaria e del tutto soggettiva. Un'analoga frammentarietà è anche il tratto distintivo di Manhattan, in cui l'esistenza di Isaac è turbata e messa alla prova da una pluralità di situazioni e di dinamiche differenti: le difficoltà creative e l'ironia autodenigratoria ("Anni fa scrissi un racconto su mia madre, intitolato La sionista castrante"); il sentimento altalenante per Tracy, con cui Isaac non vuole creare legami troppo vincolanti; i contrasti con l'ex moglie Jill (Meryl Streep), autrice di un libro in cui descrive ferocemente il loro matrimonio ("Di noi due non sono io lo psicotico, immorale, ambisesso... spero di non avere omesso niente", le ribatte Isaac); e il colpo di fulmine per Mary Wilkie (Diane Keaton), l'amante del suo miglior amico, Yale Pollack (Michael Murphy).
Isaac e Mary
Mary, giornalista di cultura e costume dai modi ostentatamente snob ("Io sono di Philadelphia... sapete, noi crediamo in Dio") e con la sua buona dose di complicazioni nei rapporti con l'altro sesso ("Il mio problema è che provo un'attrazione repulsa per l'organo maschile"), è l'elemento che sconvolge il precario equilibrio fra Isaac e Tracy, ma anche l'altro motore di comicità di un film divertentissimo, con alcuni fra gli scambi di battute più memorabili mai scritti da Allen. E il merito, ancora una volta, risiede soprattutto nell'infallibile alchimia fra Woody e Diane Keaton, a partire dal primo incontro/scontro fra Isaac e Mary: l'esilarante discussione sull'"accademia dei sopravvalutati", in cui Mary inserisce con disinvoltura Karen Blixen, Carl Jung, Lenny Bruce, Norman Mailer, Vincent van Gogh e Ingmar Bergman ("Il silenzio! Oddio, ok, certo mi piaceva molto quando ero ad Harvard, ma mio Dio, esiste il superamento... anche i Bergman li superi!").
Dall'iniziale idiosincrasia a un'attrazione al contempo fisica ed emotiva (favorita, paradossalmente, dalle rispettive ansie e nevrosi), Isaac e Mary si pongono come il fulcro di una complessa girandola amorosa (fidanzati, coniugi, amanti, relazioni concluse e relazioni clandestine) i cui intrecci coinvolgono tutti i personaggi di Manhattan, disponendo i fili di una trama quasi del tutto priva della linearità classica, ma caratterizzata dalla costante alternanza fra moti centripeti e centrifughi, fra separazioni e ricongiungimenti. E New York funge appunto da cornice di tale girandola: un microcosmo incantevole che avvolge i protagonisti nella propria eleganza d'altri tempi, fra sequenze en plein air e ambienti che fanno da perfetto corredo ai loro stati d'animo. La prima scintilla fra Isaac e Mary si accende non a caso fra le vie della città e sulla panchina di fronte al Brooklyn Bridge, sulla melodia di Someone to Watch Over Me.
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Le cose per cui vale la pena vivere
È un altro luogo-simbolo di New York, il Planetarium, ad accogliere Isaac e Mary - o meglio, le silhouette nere dei due personaggi - in un'altra scena fondamentale del film: quella in cui entrambi si confrontano sulla dicotomia fra la razionalità e i sentimenti. "Ho milioni di realtà sulle punte delle dita", constata con amarezza Mary; "E non servono a niente, vero?", le risponde Isaac, "Perché niente che valga la pena di conoscere può essere compreso dalla mente". Ciò nonostante, la paura dei sentimenti è ciò che spingerà Isaac ad allontanare Mary, almeno per il momento, e a fare lo stesso con Tracy, spingendola a partire per Londra: "We'll always have Paris", le dice Isaac, riprendendo la famosa frase di Casablanca (una citazione storpiata nell'adattamento italiano), salvo poi, nel finale, sovvertire il paradigma bogartiano e implorare la ragazza di non salire su quell'aereo.
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Il gioco di echi e di rovesciamenti con Casablanca, opera di riferimento nel cinema alleniano, è un'altra componente ironica di un film in cui umorismo, tenerezza e malinconia convivono in maniera miracolosa. Si pensi a un'altra scena entrata negli annali, quando Isaac, abbandonato da Mary e tradito da Yale, cerca un contrappunto al malessere della vita elencando le cose per cui vale la pena vivere e conclude la sua lista con "il viso di Tracy". E se l'epilogo del racconto, con il doppio fallimento amoroso del protagonista, potrebbe avere il sapore di una sconfitta, Allen non manca di lasciarci con un sorriso e di ricordarci, per bocca di Tracy, che in fondo "non è che tutti si guastino... bisogna avere un po' di fiducia nella gente".