La regista brasiliana Marianna Brennand anni fa si trovava nella foresta amazzonica. Era lì impegnata nelle ricerche per un documentario quando si è ritrovata faccia a faccia con delle donne dei piccoli villaggi circostanti. Si sono fidate di lei e le hanno confidato le violenze subite fin da piccolissime all'interno delle mura domestiche. Il luogo dove ci si dovrebbe sentire più al sicuro era per loro sinonimo di abusi e sofferenza. Un luogo dal quale non potevano andarsene. È da queste storie che nasce Manas, lungometraggio presentato in concorso alle Giornate degli Autori.
Un'eredità di abusi
La protagonista è Marcielle (Jamile Correa), da tutti chiamata Tielle. Vive con i genitori e tre fratelli in una piccola abitazione sul mare dell'isola di Marajó. Ha una sorella più grande che vede come un modello da seguire. Lei, a detta di sua madre, è riuscita ad trovare un "brav'uomo" che si prende cura di lei su una chiatta commerciale. Passe le sue giornate tra scuola, chiesa e l'aiuto nei lavori di casa. Suo padre si sveglia all'alba per andare a caccia nel cuore della foresta amazzonica. Un giorno decide di portarla con sé. Quello che accade nella fitta vegetazione lontano dagli occhi altrui cambierà per sempre la sua vita.
Quello di Manas è un lavoro lungo dieci anni al cui interno Marianna Brennand ha condensato le storie di quelle donne che nessuno aveva mai ascoltato prima. E il punto del film è esattamente questo. Dare voce a chi non ce l'ha, a chi è come se non esistesse. Qualsiasi donna nel corso della propria vita si è ritrovata faccia a faccia con un qualsivoglia forma di violenza, fisica o psicologica. Ma c'è una parte di noi che, nell'orrore e nel disgusto, ha la possibilità di farsi sentire, di denunciare. Una spinta in questo senso nasce indubbiamente come conseguenza del movimento Me Too che ha portato ad un'apertura maggiore, al coraggio di non restare nell'ombra.
Ma poi c'è chi come Tielle non ha i mezzi o non viene ascoltata. Sua madre, incinta, prova ad allontanare quel padre orco dalla figlia ma, al tempo stesso, sembra quasi rassegnata a un destino che è toccato a lei e alle donne prima di lei. È esemplare la sequenza in cui la ragazzina si confida con la proprietaria di un piccolo negozio del villaggio. La risposta della donna è un'agghiacciate "passerà".
Un cinema di denuncia
Marianna Brennand è molto brava nel creare una tensione sottilissima che mette a disagio lo spettatore. Perché c'è qualcosa di profondamente sgradevole e nauseante nell'avvertire che un atto innaturale sta per compiersi. Una violenza che la regista non mostra mai sullo schermo, per non alimentarne altra e avere, almeno lei, rispetto per Tielle e tutte le bambine, ragazze e donne costrette a vivere le stesse umiliazioni.
Manas è un cinema di denuncia che pone la sua attenzione su una tematica che ci riguarda tutti. Perché solo parlando e condividendo, solo denunciando può avvenire una rivoluzione. Il silenzio alimenta e dà forza a chi pensa che il corpo di una donna gli appartenga e possa farci ciò che vuole senza conseguenze. Tielle quella catena di abusi senza fine prova a spezzarla. Dovremmo impegnarci, come società, a fare lo stesso.
Conclusioni
Marianna Brennand porta sul grande schermo storie di donne sconosciute i cui destini restano nell'ombra. Lo fa attraverso la sua giovane protagonista che, come un'eroina, decide di spezzare le catene di un ciclo di violenze perpetrate di generazione in generazione. Un cinema dalla forte valenza sociale strettamente legato al mondo post Me Too e che prova a dare voce a chi non ce l'ha.
Perché ci piace
- La scelta di non mostrare mai la violenza sullo schermo.
- La prova della giovane protagonista Jamile Correa.
- La tensione narrativa.
- Concentrarsi su un microcosmo per raccontare un macrocosmo.
Cosa non va
- Per alcuni spettatori la tematica potrebbe essere troppo forte.