Le preoccupazioni che affliggono Riko sono piuttosto comuni: una casa che non si vuole vendere ma che si fatica a mantenere, una moglie che si tradisce ma a cui si vuole bene, un lavoro che non gratifica ma che consente le uscite con gli amici di sempre.
Alla conferenza stampa di Made in Italy, uscito il 25 gennaio in circa 400 copie, Luciano Ligabue parla alla sala gremita di giornalisti dei suoi personaggi di provincia, figure "normali" che sente di amare ancora di più dopo averle viste interpretate dal cast, presente al gran completo in sala. Con Stefano Accorsi e Kasia Smutniak anche gli altri attori prendono la parola per raccontare l'atmosfera rilassata sul set, e quanta garbata eleganza sfoderasse il buon Liga durante le riprese.
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La paura del cambiamento
Dall'ultimo film di Ligabue sono trascorsi sedici anni. Di chi è la colpa per aver lasciato passare tutto questo tempo?
Luciano Ligabue: È colpa di Domenico Procacci e di Giampaolo Letta; io ogni anno proponevo a Procacci un altro film, ma mi diceva sempre di essere impegnato con altre produzioni (ride).
Del film colpisce il discorso sul cambiamento, soprattutto quando l'amico del protagonista sprona a non aspettarlo, ma a cercarlo.
Il cambiamento fa paura, anche perché siamo propensi a pensare che non porti buone cose. A maggior ragione se ci ancoriamo a quelle tre certezze che abbiamo, non avremo voglia di cambiamenti. Ma il cambiamento è il movimento naturale della vita: cambia il nostro modo di guardare le cose. Ancor più che gli eventi in sé, è la nostra reazione agli eventi a produrre la nostra realtà. Noi siamo resistenti al cambiamento. Riko e Sara sono due persone che vivono una realtà per loro consolidata, e questo a un certo punto fa sì che arrivi un momento di crisi, in cui l'inquietudine di Riko gli fa avvertire tutte le cose della sua vita un po' strette, nonostante le abbia sempre amate. Ha bisogno di cambiare sguardo e punto di vista: il film parla proprio di questo percorso.
C'è stato un momento in cui Made in Italy era già un film prima ancora che s'iniziasse a scrivere la sceneggiatura?
Made in Italy nasce come progetto "balordo". È anacronistico pensare di realizzare un concept album negli anni Duemila. Sono consapevole del fatto che la musica mediamente venga ascoltata con velocità. In tempi come questi un concept album, che quindi racchiude una storia, è al limite della presunzione, ma io sentivo di volerlo realizzare, e allora ho cominciato a chiamare insistentemente l'impegnatissimo Procacci per questo progetto. Scherzi a parte, la preparazione di un film è molto faticosa: mentre sul palco è tutto un fluire di emozioni, il film prevede ‒ per quanto possa suonare male ‒ la progettazione di quelle emozioni. Bisogna fare in modo che tanti segmenti di pochi secondi riescano, attraverso un processo mentale, a produrre qualcosa che tu vorresti fosse di cuore. Mi sono riavvicinato alla regia perché non avevo più la scusa di non avere una storia; questa volta la storia l'avevo, e Procacci ha finalmente risposto al telefono.
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L'amore per l'Italia
Un tentativo molto coraggioso del film è quello di tenere insieme due piani: l'amore in senso stretto e l'amore per l'Italia. Come la vedi questa Italia adesso?
La vedo in una fase d'incertezza forte, ma è importante il sentimento che continuo a provare. Io ho cominciato a raccontare del mio sentimento verso questo paese dieci anni fa, con la canzone Buonanotte all'Italia. Via via in questo periodo ci sono state altre escursioni, per esempio con Il sale della Terra e Il muro del suono, che nascondevano da un altro punto di vista la stessa intenzione: quella di raccontare il mio amore verso questo paese, che non viene meno nonostante la frustrazione per tutti i difetti che vediamo irrisolti. Volevo raccontare questo sentimento attraverso lo sguardo di un personaggio che non ha i miei stessi privilegi: Riko vive una vita normale, ma a un certo punto seguendo la sua vita normale la troviamo fuori dall'ordinario. Ha un rapporto molto forte con le radici e con il suo Paese: durante il film si riflette sul fatto che nessun italiano faccia le vacanze a Roma, né la luna di miele in Italia, nonostante molti di noi concorderanno sul fatto che questo resti il paese più bello del mondo. Siamo assuefatti alla sua bellezza e rassegnati al suo malfunzionamento: questo produce una frizione che spesso sento il bisogno di raccontare, e da un punto di vista sentimentale, un aggettivo spesso interpretato male ma a cui io do un'accezione positiva. Questo è un film sentimentale: più di tutto m'interessava raccontare gli stati d'animo di un gruppo di persone per bene, che come tali spesso non hanno voce in capitolo, non vengono raccontate perché sono poco interessanti da un punto di vista drammaturgico. Raccontare i cattivi è più cool. Questa idea volevo ancorarla a ciò che conosco: io ho tanti amici di vecchia data che sono brave persone e che spesso dicono che essere brave persone in questo paese non paga. Mi piaceva dare voce a questa categoria, non tanto rappresentata.
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"Sara Smutniak" e Riko
Hai detto che il personaggio di Sara ti piace così tanto da esserti innamorato di "Sara Smutniak". Cos'è che ti fa innamorare di lei e dell'interpretazione di Kasia?
Sono perdutamente innamorato del suo personaggio. Sara nel disco è appena citata, ma man mano che ne scrivevo per il film le volevo bene, e volevo bene alla sua forza, alla sua coerenza, alla sua capacità di fare sbagli profondi ma poi di risolverli con praticità. Quando vive un periodo di forte difficoltà lei ammette di non poterne più: reclama la vita per ciò che vorrebbe fosse per lei, e se prima era un personaggio a cui volevo bene adesso nel vederlo interpretato da Kasia mi sento perdutamente innamorato di Sara Smutniak.
Kasia, qual è il tuo rapporto con Sara e com'è stato lavorare con Domenico Procacci?
Kasia Smutniak: Io e Domenico lavoriamo male insieme, perché lui mi mette in soggezione. È sempre stato così, abbiamo lavorato a diversi film insieme ma questa sensazione non si è ancora estinta. Durante le riprese di questo film io gli vietavo di venire sul set, quindi lui veniva ma si nascondeva. Comunque Sara è stata un personaggio molto importante per me: mi sono ispirata alla forza che manifestano le donne. Di lei mi piace la coerenza, lo stare con i piedi piantati per terra, il suo sapere ciò che vuole. La vita può portare a perdersi momentaneamente, ma lei è risoluta e nei momenti difficili prende decisioni e non ha paura di farlo. Interpretarla non è stato semplice, ma mi ha aiutato il mondo musicale estremamente chiaro di Luciano dentro cui mi dovevo muovere.
Stefano, che tipo di uomo è Riko e che Ligabue hai ritrovato dopo tanti anni da Radiofreccia?
Stefano Accorsi: Riko è un uomo che sta vivendo un momento di crisi, e che probabilmente se ne vorrebbe anche andare dall'Italia. Ma modificando il suo punto di vista si rigenera, e trovo molto rari i personaggi raccontati in questo modo. Di solito, come diceva Ligabue, si raccontano i cattivi o degli eventi straordinari; invece la forza di questo film è l'autenticità che gli stessi attori riescono a dare al proprio personaggio. In questo film c'è tanta verità. Riguardo a Luciano, l'ho trovato in grande forma, ed è un privilegio lavorare con un regista che ha fatto maturare una storia per così tanto tempo prima di realizzarla.
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La generazione di mezzo e la provincia
Ligabue, hai già un'altra storia in mente da realizzare al cinema?
Luciano Ligabue: Anche se fosse, Domenico tornerà a negarsi al telefono.
Domenico Procacci: È importante, al di là dell'ironia, specificare che ci siamo visti tante volte e tante volte ho chiesto se ci fossero i margini per un film. Sono molto contento che sia tornato a fare cinema, ed è straordinario come riesca a maneggiare un mezzo che non riprendeva da tempo. Su Kasia, ci sarà sempre qualcuno che penserà che sia presente nel cast di certi film in quanto sono di mia produzione. In realtà, quando Luciano mi ha chiesto se lei sarebbe stata disposta a fare il provino, io ero scettico perché avevamo in mente un personaggio distante da lei. Poi mi sono ricreduto, perché Kasia ha fatto un bellissimo lavoro. Sono contento anche che siamo tornati dopo tanti anni a lavorare con Medusa Film.
Un altro aspetto che colpisce del film è la rappresentazione di una generazione di mezzo, non anziana ma neanche troppo giovane, che fatica a inserirsi nel contesto lavorativo. Come vedi questa generazione?
Luciano Ligabue: Tutto questo progetto nasce da un seme: la canzone Non ho che te. È la storia di una persona di mezza età che perde il suo posto di lavoro e ha difficoltà a trovarne un altro. Quella storia ha generato Made in Italy. Nel film ho ripreso la canzone, in versione acustica anziché elettrica com'era in origine, perché mi piaceva raccontare specificamente di come una persona, nel momento in cui perde il posto di lavoro, perde anche un proprio senso profondo d'identità. Non è solo un discorso di non essere più utili in casa col proprio stipendio, ma è un discorso che ha a che fare con chi sei, e col modo in cui diventi fragile quando perdi quel tipo di certezze. Ma c'è il tentativo di essere più specifici possibile: io ricordo che con Radiofreccia mettevo spesso la macchina da presa a picco in modo che schiacciasse i personaggi al suolo; volevo raccontare la storia di personaggi particolari. La definizione più usata di Radiofreccia è stata invece "ritratto generazionale": io continuo a essere interessato alle storie specifiche, che non per forza devono rappresentare quelle di tutti.
Credi che sia possibile spezzare questo cordone ombelicale che ti lega così fortemente alla provincia?
No, perché vivo lì da un numero inimmaginabile di anni: ci vivo bene, è la mia dimensione, ed è magari anche per questo che il mio raggio di azione artistico è limitato geograficamente. Tendo a voler raccontare le cose che conosco bene.
Complimenti a tutto il cast, che è riuscito a comunicare perfettamente le emozioni dei personaggi.
Nella fatica incredibile di realizzare un film, è stato davvero appassionante il lavoro con gli attori, e io ancora oggi nel veder scorrere la fotografia finale che li rappresenta uno a uno penso di volergli bene. Non ho capito se voglio bene ai personaggi o a loro che li hanno incarnati, ma ne approfitto per ringraziarli ancora una volta, perché è stato davvero bello lavorarci insieme.