Iniziando a scrivere la recensione di Ma, nuovo thriller-horror prodotto dalla gettonatissima Blumhouse e distribuito dalla Universal, la prima reazione è di assoluta ilarità a causa di quel titolo monosillabico, rimasto invariato per l'uscita italiana (nel contesto del film è il nomignolo che i giovani protagonisti danno alla stramba Sue Ann) e molto probabilmente destinato a creare problemi non solo agli addetti ai lavori, costretti a recensire un lungometraggio il cui titolo non è esattamente accomodante nei confronti dei motori di ricerca, ma anche al pubblico italico. Già immaginiamo scene del tipo "Ma che è?" o "Ma de che?" al cinema, quando gli appassionati di genere cercheranno di procurarsi i biglietti per la quinta fatica registica di Tate Taylor.
La cantina del divertimento
La trama di Ma si svolge in una cittadina dell'Ohio, dove Erica Thompson (Juliette Lewis) è cresciuta e ora è costretta a tornare, fresca di divorzio, con la figlia adolescente Maggie (Diana Silvers). La ragazza fa rapidamente amicizia con alcuni compagni di scuola, i quali la convincono a unirsi a loro per andare a bere di nascosto. Dopo un paio di tentativi a vuoto di farsi procurare gli alcolici da passanti adulti, il gruppo di imbatte in Sue Ann (Octavia Spencer), che accetta di aiutarli a patto che non facciano nulla di rischioso. E così, dalla seconda volta in poi, la stramba figura materna (da cui il titolo del film) propone che tutti i giovani della zona si servano del suo seminterrato, dove c'è tutto il materiale necessario per fare baldoria senza mettersi al volante. Troppo bello per essere vero? Ebbene sì, perché il comportamento di Sue Ann comincia a farsi sempre più strano, e a farne le spese potrebbero essere proprio Maggie e i suoi amici.
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Questioni di genere
Tate Taylor, apprezzato regista di The Help e La ragazza del treno, ha ricevuto il copione del film dal produttore Jason Blum, suo amico, dopo aver dichiarato di voler fare qualcosa di fucked up, come lui stesso afferma in un'intervista concessa a GQ. Per il ruolo di Sue Ann, che nella prima stesura era bianca, ha pensato a Octavia Spencer, da sempre relegata a ruoli secondari e mai scritturata come interprete principale. Quando le ha proposto il progetto lei hai inizialmente risposto "Morirò dopo sette minuti, vero?", alludendo al famigerato luogo comune della presenza scenica dei personaggi di colore nei film horror. "No, sarai tu a dare del filo da torcere alla gente", ha ribattuto Taylor, e il fascino dell'opera sta proprio nell'apparato teorico, nella voglia di andare oltre lo stereotipo, in un ambiente produttivo che la stessa Blumhouse ha contribuito a far evolvere con i film di Jordan Peele: basti pensare al recentissimo Noi, dove la famiglia principale è afroamericana senza che la componente razziale faccia parte del messaggio del film.
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Taylor fa più o meno lo stesso, presentando Sue Ann come la componente centrale del suo racconto senza pigiare sul tasto delle tensioni tra bianchi e neri che dominano tuttora le pagine più tristi della cronaca americana. O meglio, non lo fa nel presente, perché il comportamento di Sue Ann ha un'origine, spiegata tramite flashback, e lì, complice uno squilibrio tonale fra le parti grottesche e quelle serie, fuoriesce un discorso sulla discriminazione che lascia l'amaro in bocca per le ragioni sbagliate. L'intento creativo è nobile, ma il potenziale davvero disturbante della premessa non è sfruttato fino in fondo, non c'è quell'elemento davvero fucked up che il regista, abituato ad altre atmosfere, ha evocato come motivazione per portare sullo schermo questa storia che è stramba, ma non abbastanza. Tra uno sguardo inquietante e trovate che non sfigurerebbero nel cinema di Eli Roth, il film è costantemente sospeso tra due modalità, indeciso fino alla fine.
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Octavia Spencer, una performance da brividi
In mezzo a cotanta confusione che non risparmia quasi nessuno (e riesce quasi a sprecare Allison Janney, esilarante ma ridotta a un cameo esteso) si muove Octavia Spencer, finalmente in grado di dominare dopo anni di (ottime) partecipazioni minori. Il film è incerto, ma lei no, e dà a Sue Ann una perversa coerenza, anche nei cambi di registro, che altrove viene a mancare.
Se da un lato possiamo parlare di un'occasione sprecata, per quanto riguarda l'esito complessivo dell'operazione, dall'altro è un trionfo totale per aver dimostrato che una delle attrici più notevoli degli ultimi anni ha tutte le carte in regola per interpretare ruoli più sostanziosi, giocando sulla propria simpatia naturale per poi spiazzarci con trasformazioni a dir poco raccapriccianti. Si esce dallo scantinato con sensazioni contrastanti, sia nonostante che a causa del film, e il merito è quasi interamente della formidabile, deliziosamente folle performance centrale.
Conclusioni
Giunti al termine della nostra recensione di Ma, pensiamo soprattutto alla performance maestosa di Octavia Spencer, capace di giustificare la visione anche se il film in sé, che vuole essere al contempo un revenge movie fuori di testa e un dramma più serio, rimane costantemente bloccato tra i due registri, incerto sul da farsi. Qualche momento cult c'è, ma la Blumhouse ha fatto di meglio.
Perché ci piace
- La premessa è ricca di potenziale.
- Octavia Spencer è strepitosa e inquietante.
Cosa non va
- Il tono diseguale influisce negativamente sull'equilibrio tra dramma, risate e brividi.
- Alcune scelte narrative lasciano a desiderare.
- I comprimari adulti potevano essere usati meglio.