Non possiamo che iniziare la nostra recensione di Ma Rainey's Black Bottom rompendo ogni indugio e lanciandoci in un'affermazione forse prematura, ma assolutamente sincera: Chadwick Boseman potrebbe vincere un Oscar postumo per l'incredibile interpretazione in questo film. Non solo perché il suo è un personaggio centrale in questo film targato Netflix, diretto da George C. Wolfe e basato su un'opera teatrale di August Wilson (lo stesso scrittore, vincitore di due premi Pulitzer, di Barriere), ma anche e soprattutto per la forza recitativa dell'attore. Eppure, sarebbe molto limitante raccontare questo film solo attraverso la figura di Boseman: Ma Rainey's Black Bottom è un film di sudore, blues e voci. Un'opera che, sotto la patina musicale, nasconde una rabbia non del tutto sopita, una rabbia che nasce dai continui soprusi (fisici, intellettuali, economici) e dalle sconfitte. Teatrale nella messa in scena, eppure allo stesso tempo capace di usare al meglio il linguaggio cinematografico, Ma Rainey's Black Bottom è un film che trasuda una condizione esistenziale ancora attuale, complesso nel modo in cui affronta i temi, ma capace anche di incantare il proprio pubblico attraverso quella pulsione primordiale, quel sangue caldo, che rende il blues unico.
La parola ai musicisti
La madre del blues, Gertrude "Ma" Rainey, celebre cantante blues (il vero blues, quello delle origini) arriva a Chicago con la sua band per registrare un disco sotto l'etichetta del signor Sturdyvant. Mentre l'aspettano nella sala prove, un tugurio sotto scala, i quattro componenti della band chiacchierano tra di loro sulla musica, sul loro passato, sulla loro visione della vita. Tra questi musicisti, l'unico giovane che ha il sangue ribelle e ribollente è il trombettista Levee che sembra causare problemi alla band di veterani che sembrano non voler cambiare nulla: nessun nuovo arrangiamento adatto per gli ascoltatori "bianchi", una sola visione del mondo che ha dato loro esperienza necessaria per (soprav)vivere e una sola certezza: Ma decide. Inizia così un conflitto, uno scontro, un duetto tra il giovane e il vecchio, tra l'innovazione e la tradizione, tra chi parte dal basso e chi ha lottato una vita intera per arrivare in alto. Quasi completamente ambientato dentro quattro mura, con il caldo e il sudore sulla pelle che via via si fanno sempre maggiori, Ma Rainey's Black Bottom è un film dove la parola ha la predominanza. E non solo: come vuole la tradizione teatrale i monologhi e i lunghi racconti che lo sceneggiatore Ruben Santiago-Hudson mette in bocca ai personaggi portano con loro un significato ben preciso. Che sia una lunga metafora (la più esplicita è verso la fine del film ed è addirittura visiva) sulla condizione umana dei personaggi e dell'intera minoranza di afroamericani, che sia un modo per raccontare un sentimento intimo, che sia una parabola morale, i continui botta e risposta, a volte un po' ripetitivi, donano però al film un pregevole gusto musicale che non stona affatto. Il film procede come un lungo blues esclusivo, il suo ritmo è il fluire del sangue.
Voci, fiati e meccanismi
"I bianchi non capiscono il blues". È la battuta chiave del film, pronunciata dalla stessa Ma. Il blues appartiene solo a chi lo suona e lo canta: è la loro musica, una di quelle che nasce dalla voce interiore, che vuole ascendere dal corpo e arrivare a Dio. È l'espressione esistenziale, è la musica che dimostra che esistono. Per i "bianchi", invece, è solo business. C'è un'attenzione precisa nel momento in cui la band registra il primo brano, quello che dà il titolo al film, a inquadrare il meccanismo di registrazione. In quel momento, la voce calda di Ma entra nel microfono e si stampa sul vinile, diventa un ingranaggio di un'industria che pensa solo al guadagno, perde la sua potenza reale. Come la Sirenetta, Ma perde la sua voce, la cede con una firma nella liberatoria e la fa diventare proprietà della fredda casa discografica. Il trombettista Levee vorrebbe cambiare, vorrebbe giocare con questo meccanismo: vendersi per guadagnare e dimostrare di essere qualcuno. Ha i bollenti spiriti del giovane che vuole dar fuoco al mondo ed è proprio per questo che nasce lo scontro: il blues ha il suo ritmo, costante, è incapace di dare spazio ad assoli jazz. La band deve seguire lo stesso ritmo, deve suonare insieme, altrimenti vincono "loro". O, in altre parole, non è più blues. Cantare e suonare la tromba: in entrambi i casi si usa il fiato e il respiro ed è proprio questo che la band di Ma sta sacrificando, perdendo nota dopo nota un pezzo della loro emancipazione. Non sorprende il finale amaro, a prima vista esagerato, ma coerente con il discorso imbastito: in quelle note finali si trova il collegamento tra questa storia del 1927 e il 2020 che rende il film ancora attuale.
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Un cast con una voce vera
Anche non riuscendo a cogliere ogni riferimento culturale, ogni sfumatura tematica e ogni metafora che i dialoghi dei personaggi vogliono mettere in scena (uno in particolare sullo stufato è indimenticabile), non possiamo fare a meno di rimanere esterrefatti dalle performance attoriali dei due protagonisti. Viola Davis è una perfetta Ma Rainey: una donna di vita vissuta, decisa, quasi dittatoriale, a prima vista glaciale nonostante il sudore che le sbava il trucco, ma che porta con sé un malessere che solo la musica riesce a curare ("Si canta per capire la vita" dirà). Capace di certi sguardi che raccontano tutto un passato, la Davis usa piccoli gesti per descrivere il personaggio: nel modo in cui cammina, nel modo in cui firma, nel modo in cui si disseta bevendo una bottiglia di Coca-Cola facendo schioccare le labbra. Il suo personaggio sta tutto lì, in quella presenza ingombrante ma materna. Vero e proprio co-protagonista è Chadwick Boseman, qui alla sua ultima interpretazione prima della prematura scomparsa. Capace di cambiare registro, dalla simpatia alla rabbia, dall'amorevole musicista al disperato, con una qualità da fuoriclasse, in questo film Boseman dà vita all'interpretazione migliore della sua carriera, degna di un Oscar. C'è un momento particolare (che, va detto onestamente, si fa fatica a guardare senza considerare le sue reali condizioni di salute) in cui l'attore esplode completamente con una tale sincerità, così potente da contaminare la finzione con la realtà, che non può che commuovere. Ed è in quella rabbia così folle e blasfema che il film va oltre il semplice racconto, trascende la musica blues e diventa un atto poetico. Il grido più sincero, disperato, esistenziale e, di conseguenza, vivo del 2020.
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Conclusioni
Concludiamo la nostra recensione di Ma Rainey’s Black Bottom ben sapendo che il film potrebbe risultare ostico al grande pubblico a causa della natura teatrale che fa procedere il racconto attraverso dialoghi serrati e metaforici e lunghi monologhi un po’ troppo costruiti. Tuttavia il film si fa espressione di una voce rabbiosa e sanguinea della condizione delle minoranze in America, usando la musica blues come metafora dell’esistenza e dei problemi ancora contemporanei che attanagliano il paese. Due interpretazioni straordinarie di Viola Davis e Chadwick Boseman sono solo la ciliegina sulla torta di un film sincero, complesso, amaro, ma allo stesso tempo necessario.
Perché ci piace
- Le interpretazioni di Viola Davis e, soprattutto, di Chadwick Boseman.
- I temi affrontati sono ancora attuali.
- Come la musica blues, si percepisce l’esigenza di raccontare attraverso voci vere, imperfette ma sincere.
- Il film ha un ritmo costante e non lascia indifferenti.
Cosa non va
- A causa della sua natura teatrale e metaforica, i lunghi dialoghi e alcune scelte narrative potrebbero mettere a dura prova lo spettatore meno esigente.