Esiste un cinema italiano che non si vede. Un cinema italiano che vive al di fuori dei canali di distribuzione più canonici, che decide di soffrire di un'esistenza incerta piuttosto che scendere a compromessi riguardo la propria libertà, mettendo da parte anche le logiche del botteghino. Una scelta fatta per una necessità, senza la cui soddisfazione, semplicemente, non gli sarebbe possibile vivere, ma che ovviamente non gli conferisce maggiore dignità rispetto a chi sceglie altri percorsi. Non siamo qui per dare medaglie ovviamente. Quello che ci interessa è invece dar voce ad un panorama vivo, febbrile, plurale, stimolante e che negli ultimi anni si è andato arricchendo sempre più di nuovi nomi, idee e volti. Purtroppo però è anche diventato più estremo, autoriferito e selvaggio, arrivando a soffrire di una competizione interna che è pian piano sfociata in una reciproca diffidenza tra diversi dei suoi esponenti e che ha portato anche ad una progressiva assenza di dialogo.
Lumina di Samuele Sestieri, presentato all'International Film Festival di Rotterdam del 2021 e selezionato dal Pesaro Film Festival, è in questo senso un'eccezione alla regola, perché nonostante rispecchi in pieno la ricchezza, la complessità e quindi la bellezza del tipo di cinema che rappresenta, è anche un'isola produttivamente felice. Anzi, è un lavoro che con forza si è battuto e ha infine conquistato questo status, dandosi come primo obiettivo quello di nascere e vivere grazie ad una rete creativa incredibile in un mondo in cui purtroppo essa spesso non esiste.
Ne parliamo per questo aspetto, ne parliamo perché è un film straordinario, moderno, che parla di cinema, memoria e immagini, che miscela generi e immaginari. Ne parliamo perché ci permette di scoprire un autore e un lavoro interessantissimi, ne parliamo perché esiste un cinema italiano che non si vede. E questo è un problema, soprattutto per gli spettatori.
L'importanza di essere uno spettatore
Partiamo in modo tradizionale, nonostante Lumina sia tutto che tranne una pellicola tradizionale nel panorama italiano: l'idea del film.
Lumina è nato da una serie di urgenze. La prima è che avevo una gran voglia di tornare a girare. Il mio primo film, I Racconti dell'orso, è uscito nel 2015, ma lo avevamo girato addirittura nel 2013.
Inoltre questa volta sentivo l'esigenza di confrontarmi con qualcosa di più narrativo rispetto al passato, qualcosa che prevedesse la presenza di una troupe vera e propria, anche se in miniatura (eravamo in dieci). Qualcosa che partisse da una sceneggiatura, sempre scritta Pietro Masciullo, più strutturata.
Un elemento che è diventato fondamentale è stata l'incredibile suggestione provata attraversando i villaggi fantasma lucani, che ho esplorato insieme ad uno dei produttori del film, Pietro Stori, come fossimo dei piccoli cine-esploratori.
La sensazione struggente di un'umanità evaporata da un momento all'altro è stato il seme che ha permesso al film di germogliare. Tra le rovine emergevano oggetti di vita quotidiana che sembravano bloccati nel tempo, custodi di infinite narrazioni possibili.
Infine c'era la voglia di realizzare una pellicola che fosse prima di tutto un atto d'amore, non solo nella storia mostrata sul cellulare, ma nel rapporto tra il personaggio di Carlotta Velda Mei e questi paesaggi abbandonati. Lei, con la sua sola presenza, è in grado di illuminare le rovine.
Lumina appunto: fare luce su un mondo dimenticato.
Del resto era un periodo in cui io in primis avevo bisogno che alcune parti di me, lasciate per un po' in disuso, riacquistassero luce, vita e calore.
Ho trovato nel tuo film una grande riflessione sul valore dell'immagine e del cinema attraverso una sorta di livello teorico "importante", forse anche dovuto al tuo passato nel mondo della critica.
È vero che ho passato diversi anni nel mondo della critica cinematografica ma quando filmo sono portato quasi naturalmente a fare un passo indietro. Sai, fare un film è qualcosa di estremamente pratico e atletico, per dirla alla Herzog. Qualcosa che prima di tutto richiede una certa fatica fisica, soprattutto in questo tipo di film, in cui banalmente devi trasportare l'attrezzatura da un luogo all'altro e il problema maggiore è trovare un distributore di benzina nell'arco di cinquanta chilometri.
Non nascondo poi che scrivendo Lumina con Pietro, che è un autentico divoratore sentimentale di immagini, c'è sempre stata l'idea di realizzare un film su una spettatrice. Costruire una sorta di soggettiva dello spettatore che oramai fruisce le storie, fruisce il cinema, attraverso lo schermetto di uno smartphone. E ci piaceva che fosse proprio questo cellulare a impartire alla nostra protagonista quella che poi è di fatto una reale educazione sentimentale.
Come spettatori, tutti abbiamo sempre sognato di entrare nel film che vediamo e quando non ci riusciamo finiamo per impantanarci.
La protagonista è un punto di contatto tra due mondi, ma soprattutto tra due tempi, passato e futuro. È più corretta l'una o l'altra affermazione?
Più che un punto di contatto volevo che lei fosse l'unica in grado di risvegliare questi mondi, questi tempi diversi. Lei è una batteria vivente: funge continuamente da riattivatore elettrico di memorie e in questo senso sì, il discorso sul tempo e sulle immagini è centrale: le immagini che lei riattiva di per sé sono fredde, lontane, sconosciute. È lei a scaldarle. D'altra parte se non ci fosse più nessuno a guardare queste immagini, loro di per sé sarebbero reliquie, residui di un tempo e di un mondo dimenticati. Sono gli occhi di chi guarda a renderle vive.
C'è un'immagine che ritorna come un mantra: una lucina fioca e debole che sta sempre sul punto di spegnersi, che attraversa mille intemperie, ma resiste, sempre, comunque. E alla fine, perché io al cinema credo nel lieto fine, torna a splendere e riaccende tutto ciò che la circonda.
Mi affascinava infine l'idea di lavorare su un immaginario così di tendenza come il postapocalittico per poterlo svuotare: le uniche rovine che mi interessano sono quelle interiori. I nostri resti, le nostre fratture, i nostri terremoti emotivi.
Quindi lei è la sognatrice o il sogno?
Questa è la domanda definitiva, è Lynch che sogna la Bellucci in Twin Peaks 3. Alla fine il sogno è sempre il sognatore. Mi sono salvato?
Un futuro riempito da un passato da illuminare
Non canterei vittoria così presto, ci riprovo subito: in Lumina il rapporto tra futuro e passato è, mi spingo a dire, idiosincratico. Mi spiego, il tuo interesse è chiaramente per questo futuro distopico e in rovina, ma solo nella forma, perché il contenuto di cui lo riempi deriva interamente dal passato.
Il gioco del film è tutto lì. Lumina è incentrato su questo sentimento struggente di nostalgia per il futuro, ma non è un film catastrofista. È un film che invece decide fermamente di credere a una persona, una sola, in grado di creare una frattura, uno squarcio, una nuova luce.
Va bene, per ora sono soddisfatto, torniamo a cose pratiche: la tua prima regia in solitaria.
Un'esperienza faticosa, certo, ma straordinaria. Fare un film del genere vuol dire prima di tutto produrlo, immaginando una struttura che lo possa rendere possibile: leggera, flessibile, armoniosa ma soprattutto laboriosa.
Io volevo che nella mia troupe ci fossero una serie di persone, anche registi, che uscissero dai loro ruoli canonici e mi aiutassero a infondere energia al progetto. Per fare questo dovevano crederci.
Andrea Sorini, regista del bellissimo Bajkonour, Terra, qui direttore della fotografia, è stato letteralmente il mio terzo occhio. Fabio Bobbio, regista di un altro film che sento molto vicino, I Cormorani, è stato quasi una sorta di terapeuta più che un montatore. O Olmo Amato, con cui avevo diretto I Racconti dell'Orso, qui colorist, che ha dedicato tutta la sua sensibilità e il suo amore fotografico alle nostre immagini. Poi è arrivata la musica straordinaria di Virginia Quaranta, il lavoro sui suoni della New Digital e via dicendo. Si è trattato, in fin dei conti, di creare una costellazione di sguardi, un piccolo mondo che permettesse al film di esistere: questo, in primo luogo, significava trovare i luoghi giusti, ma anche rispettarli, capire come scenografarli senza però alterarli, conservandone la loro autenticità. La sfida era coniugare una visione direi documentaristica con l'erranza della protagonista.
Da un'altra prospettiva, è stato molto stimolante cercare di ricreare una spontaneità nella storia della coppia mostrata al cellulare. Laura Sinceri e Matteo Cecchi dovevano contrapporre la loro leggerezza alle rovine sacre, interiori del personaggio di Carlotta. Molto spesso lasciavo loro il cellulare in modo che potessero scoprirsi a vicenda. Magari potevo dargli delle coordinate. Questo ci permetteva di avere molto girato che poi poteva essere strutturato a montaggio. Il contrario del lavoro fatto con Carlotta che, per quanto fosse aperto all'ignoto, era estremamente più strutturato.
Insomma ti sei voluto complicare la vita...
Io amo complicarmi la vita.
Mi interessa il lavoro sul personaggio di Carlotta, coinvolgendo anche lei in prima persona.
Carlotta: Ne abbiamo parlato tanto. Per ovvi motivi, io ho potuto assistere da vicino a tutte le fasi del lavoro, dall'ideazione alla sceneggiatura.
La mia prima necessità era scoprire il corpo di questo personaggio: fino a Lumina avevo lavorato solo in teatro. Dovevo capire bene come si muoveva questa donna, perché il corpo è il solo mezzo espressivo che ha. Ci piaceva l'idea di donarle delle movenze un po' aliene, sicuramente distanti dalla nostra abitudine quotidiana e quindi più lente, fluide, accompagnate da una certa leggerezza. Man mano che andavamo avanti, il lavoro si è spostato sullo sguardo, che doveva essere quello di chi vedeva le cose per la prima volta senza però cadere nel grottesco o nel ridicolo. C'è una grande evoluzione in questo personaggio che la porta da un grado zero a un livello di consapevolezza sempre maggiore.
Samuele: La cosa più difficile è stata riuscire a farla recitare con gli oggetti: a parte l'uomo misterioso che appare nella seconda parte del film, non ci sono altri personaggi in scena con lei.
Siamo stati mesi sul corpo e la prossemica: Carlotta del resto viene anche dalla danza e questo permetteva più facilmente al suo corpo di prendere possesso dei luoghi e di esplorarli.
Un film "fieramente low budget"
Hai definito Lumina un film "fieramente low budget", perché?
Io sono un tipo abbastanza impaziente, soffro il tempo che passa e mi stufo presto di aspettare. L'urgenza che sentivo in quel momento era troppo impellente e mi sono messo in testa l'idea di poter realizzare Lumina all'interno di un determinato budget e attraverso alcune idee produttive alternative.
Il film è finanziato in parte da me e in parte da Pietro Stori, con l'aiuto di una generosa casa di produzione romana, Il Varco e di Mario Cattaneo, una persona che ha creduto fermamente nel progetto. Poi ci sono state le collette, i costi abbattuti, gli amici che cucinavano e quelli che ci ospitavano, le macchine in prestito e il calore lucano. Quando riesci a mettere su una realtà produttiva del genere, alimentata solo dalla fede delle persone in quello che fanno, te ne prendi tutta la responsabilità e, di conseguenza, hai la libertà di fare il film che vuoi, nel bene e nel male. Senza compromessi. Questo film era troppo intimo e personale per poterlo fare in un altro modo.
Lumina probabilmente non sarebbe mai potuto esistere all'interno di un iter produttivo differente.
Che funzione deve assumere il cinema italiano oggi per evolversi. E parlo sia in relazione allo spettatore che ha se stesso.
Mi risulta difficile parlare in generale di cinema italiano perché non esiste un unico cinema italiano, grazie a Dio. Cioè, magari sì, esiste, nel senso "è quello che si affaccia più facilmente nelle sale e fa i numeri", però soprattutto negli ultimi due decenni si sono venuti a creare tantissime nuove voci e sguardi che hanno allargato i confini del nostro panorama.
Il problema è l'assenza strutturale di una rete: esiste poco rapporto, anche di mutuo soccorso, tra le tante voci del cinema indipendente. Lumina, ad esempio, lo sto portando io stesso di sala in sala. Ed è un'esperienza grandiosa perché scopri come ci siano tantissime sale disposte ad ospitare un film del genere. Sarebbe bello ci fosse una vera e propria rete. Del resto esiste un intero cinema che non si vede nel nostro Paese, ed è un cinema spesso bellissimo.
Progetti futuri?
Insieme a Pietro Masciulo stiamo scrivendo un nuovo film, completamente differente da questo. Più grande e urbano, con tanti dialoghi. Il fatto è che dopo un po' mi annoio e devo provare qualcosa di differente. Questo che stiamo scrivendo è un film che avrei voluto vedere io come spettatore.