L'ottimo L'ultima notte di Amore (con la A in rigorosa lettera maiuscola), ci ha fatto pensare al crudo Cogan - Killing Them Softly, diretto da Andrew Domink e interpretato da Brad Pitt. Sì, quello di Domink è uno dei film noir più sottovalutati degli ultimi anni, ma il discorso e il parallelo in relazione al poliziesco di Andrea Di Stefano - presentato in anteprima alla Berlinale 2023 - è calzante per altri motivi. Stessa atmosfera, stessa tonalità, stessa concezione. Due mondi paralleli che finiscono per scontrarsi, e una risoluzione dettata esclusivamente dal rigore psico-fisico del protagonista. L'altro motivo, su cui vogliamo concentrarci, riguarda proprio la centralità di Pierfrancesco Favino, che dimostra - qualora ce ne fosse ancora bisogno - di essere un attore tanto granitico quanto malleabile. Dote rara, e una netta propensione nell'accettare e nell'affrontare copioni sempre nuovi e sempre diversi.
Il paragone che facciamo, però, non vuole mettere a confronto Brad Pitt con Favino (!), bensì il loro lavoro sul corpo e sul viso in relazione ai film citati. Perché, vedendo L'ultima notte di Amore, sembra quasi che l'intera sceneggiatura di Di Stefano sia ideata sul cambio tonale del protagonista. Più semplicemente, il film è costruito sulle espressioni di Pierfrancesco Favino, oltre che sull'attenzione fisica che, ora dopo ora, viene quasi lasciata andare in un flusso drammatico in cui finirà per crollare qualsiasi certezza. L'importanza della sceneggiatura è nevralgica, ed è fondamentale la tonalità nera che ha voluto imprimere il regista al film, sfruttando in modo notevole gli elementi tecnici, dalla fotografia di Guido Michelotti alla musica di Santi Pulvirenti. Lo specchio su cui giostra Favino è una Milano ancora più effimera e grigia, velatamente disonesta, in cui l'anima viene venduta sulle terrazze che affacciano sul Duomo.
"L'ambizione di essere onesto"
La prova di Pierfrancesco Favino parte proprio da qui: interpreta Franco Amore (ecco il perché della A in maiuscolo!), poliziotto in procinto della pensione. Un uomo buono e disponibile. Insomma, uno che "dorme sereno", che ha "l'ambizione di essere onesto". E infatti la sua entrata in scena è emblematica, e rafforza la nostra idea: Pierfrancesco Favino, all'inizio, è un uomo diverso. Leggero, morbido, rilassato. Passa il tempo preparando il discorso di commiato. Non ha pretese, ama sua moglie (Linda Caridi), sorride, bonario e onesto, con lo sguardo di chi sa di aver fatto, più o meno, del bene.
Ecco, Favino riesce a trasmettere l'amore e la luce del personaggio: non gli importa se viene considerato "un debole", lui ha la coscienza pulita. Poi c'è il click, lo scambio di binario, il flipper che va in tilt. Come il sicario Jackie Cogan di Brad Pitt, che irrigidisce lo sguardo sprezzante quando le cose si metteranno male, lo stesso avviene per Favino/Amore. La vita è un mistero, determinata però dalle nostre scelte. E L'ultima notte di Amore è (anche) un film di scelte, pesanti come un macigno. Franco perderà - letteralmente - la luce, accettando un compito facile, pulito, pagato bene. Perché un'offerta del genere non si può rifiutare.
L'ultima notte di Amore, la recensione: Pierfrancesco Favino e l'aspirazione all'onestà
Il punto di non ritorno
Ma la svolta arriva, e l'amore di Franco comincia a ripiegarsi, pulsando fin troppo velocemente. Andrea Di Stefano cambia velocità, restringe lo spazio: cala il buio e il viso di Pierfrancesco Favino muta in una faccia di plastica; una maschera di nervi e muscoli, tenuti in tensione da una notte inaspettata, che stravolge freneticamente la morale del personaggio. Si muove a scatti, come fosse un robot. Le pupille si lucidano, riflettendo il blu altalenante dei lampeggianti. La schiena si curva, scricchiola sotto il peso della paura. Le labbra si seccano, le parole vengono sputate a forza. Seguendo la scia, l'attore gonfia il collo e strabuzza gli occhi, ha il fiato corto, cosciente di aver oltrepassato il punto di non ritorno. E noi, insieme a lui.
Una sensazione che esce fuori lo schermo, influenzandoci e coinvolgendoci. Una precisione mimica incredibile, tanto che Favino pare quasi indossare i salti umorali dello script. Del resto, è stato lo stesso regista, durante la presentazione a Berlino (che potete leggere qui), a definire i paradigmi del film: "Volevo raccontare un uomo. Un uomo con l'ambizione di essere onesto, messo davanti un'altra realtà. Il compromesso genererà in lui una crisi. Ed è importante il lavoro con gli attori: sono loro che riescono a far diventare importante una scena". A giudicare dal risultato, l'obbiettivo è ampiamente raggiunto. Perché non può esserci un grande film senza un grande protagonista.