Non c'è un solo corpo dritto in queste statue, sono tutti curvi; a volte impossibilmente curvi e così nonchalant... da qui la loro ambiguità senza tempo, come se ti sfidassero a desiderarli.
Le parole pronunciate da Samuel Perlman, il padre dell'Elio di Chiamami col tuo nome, potrebbero quasi essere lette come una dichiarazione di poetica che, dall'arte classica, si estende al cinema del suo autore: l'ambiguità senza tempo di una bellezza che non si lascia ingabbiare entro i limiti della realtà e che non sembra voler concedere neppure un attimo di tregua all'attenzione degli spettatori. Perché in effetti, se c'è un leitmotiv che attraversa l'intera produzione di Luca Guadagnino, questo è senz'altro il desiderio: pochi altri registi contemporanei si sono mostrati interessati a illustrarne la natura e ad esplorarne le dinamiche con la profondità e la pervicacia di Guadagnino, italo-algerino nato a Palermo il 10 agosto 1971, cresciuto fra l'Etiopia e la Sicilia e considerato oggi, alla soglia dei cinquant'anni, uno dei più importanti cineasti della scena internazionale.
Rileggere il passato
Un'affermazione che, paradossalmente, è arrivata in America prima ancora che in Italia: a partire da Io sono l'amore, presentato nel 2009 al Festival di Venezia e approdato nelle sale un anno più tardi, rivelandosi un piccolo fenomeno fra il pubblico statunitense. Da sempre in equilibrio tra il cinema di finzione e quello documentaristico, Luca Guadagnino avrebbe poi capitalizzato quel suo primo successo con A Bigger Splash nel 2015, ma ancor di più con Chiamami col tuo nome nel 2017: il film in grado di mettere d'accordo praticamente tutti, coniugando gli elementi-chiave dello stile di Guadagnino a un'accessibilità che gli ha consentito di raggiungere vaste platee su entrambe le sponde dell'Atlantico e di aggiudicarsi la candidatura all'Oscar. Una fortuna condivisa solo in parte dalle altre opere di un regista audace e, pertanto, spesso divisivo, che non ha esitato a cimentarsi con nomi appartenenti al canone, da Luchino Visconti a Bernardo Bertolucci a Dario Argento, rileggendoli però in una chiave personalissima.
Il cinema del passato è, del resto, un orizzonte immancabile nella filmografia di Luca Guadagnino, un substrato in grado di arricchire le sue pellicole come in una sorta di gioco di specchi; non si tratta, però, di un mero citazionismo dal gusto postmoderno, ma della precisa volontà di rielaborare modelli ed archetipi alla luce della contemporaneità, seguendo percorsi assolutamente nuovi ed originali. Può accadere pertanto che in un film come The Protagonists, lungometraggio d'esordio di Guadagnino, datato 1999, si avverta l'eco di Nodo alla gola, per quanto lo sviluppo del racconto non potrebbe essere più distante: laddove Alfred Hitchcock puntava sull'effetto di realismo del piano sequenza e su una suspense ininterrotta, The Protagonists ripropone il tema del "delitto perfetto" ispirato alla cronaca nera, ovvero l'omicidio senza movente di Mohammed El-Sayed nel 1994 (non troppo dissimile da quello di Bobby Franks per mano di Leopold e Loeb), ma con gli strumenti del mockumentary e del metacinema, rifacendosi semmai a Swoon di Tom Kalin.
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L'estetica del desiderio
Quale esempio più lampante di 'finzione' di un film incentrato sull'atto stesso del reenactment e della messa in scena? Ma il senso sembra essere proprio questo: l'unica realtà su cui si sofferma Guadagnino è quella filtrata da un punto di vista che, per forza di cose, risulta influenzato dalla prospettiva di chi guarda. Una realtà soggettiva, dunque, frutto di un tentativo di comprensione e di riflessione, come nel caso di The Protagonists (in cui ci si interroga sull'essenza del Male), o dell'universo interiore di uno o più personaggi: adolescenti alla scoperta dell'amore e del sesso, come la protagonista eponima di Melissa P. o l'Elio di Timothée Chalamet in Chiamami col tuo nome, o donne impegnate a far emergere nuove dimensioni di se stesse, come la Emma Recchi di Io sono l'amore. Senza dimenticare, nel passaggio dal grande al piccolo schermo, i teenager Fraser Wilson e Caitlin Poythress, decisi a ritagliarsi un piccolo angolo di mondo in terra italiana nella serie TV del 2020 We Are Who We Are.
È il motivo per cui ciò che viene rappresentato dalla macchina da presa di Guadagnino non è mai banale: i suoi film potranno piacere o meno, ma ogni sequenza e ogni inquadratura, al di là di una funzione narrativa, costituiscono anche l'espressione di uno stato d'animo e di un sentimento. Che si tratti di località balneari, di province del Nord Italia o della Berlino all'epoca del muro di Suspiria, le immagini proposte da Guadagnino fungono da correlativo oggettivo di emozioni e pulsioni che lottano per venire a galla e che, giocoforza, determinano il modo in cui un personaggio osserva ciò che lo circonda, oltre a ciò su cui sceglie di puntare il proprio sguardo. Torniamo così a quell'estetica del desiderio di cui è permeata la produzione del regista siciliano: che sia languido o appassionato, timido o voluttuoso, l'eros è una costante inesorabile dei suoi protagonisti, la variabile impazzita in grado di scuoterne le coscienze o, addirittura, di svelarne i lati più insondabili e oscuri. I personaggi di Guadagnino guardano, dunque desiderano, e tale desiderio è l'impeto che ce li fa sentire così frenetici e vivi.
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Storie di amore e di tenebra
Può trattarsi di un desiderio come forma di ribellione e di rivalsa: è il caso di Melissa P., progetto affidato nel 2005 a Guadagnino dalla produttrice Francesca Neri sull'onda del clamore suscitato dal libro 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire. Ma è nelle opere successive, beneficiate da un maggior controllo creativo, che tale aspetto si manifesterà in maniera più compiuta e in declinazioni via via diverse: l'emancipazione della Emma di Tilda Swinton, mediante l'abbandono al piacere dei sensi, rispetto alla rigida cornice altoborghese dipinta in Io sono l'amore; il connubio fra pulsione erotica e pulsione di morte in A Bigger Splash, che utilizza La piscina di Jacques Deray come semplice canovaccio da cui costruire un racconto dai torbidi risvolti noir; la purezza cristallina dell'amore fra Elio e Oliver, nell'idillio bucolico della campagna lombarda, in Chiamami col tuo nome, adattato insieme a James Ivory dal romanzo di André Aciman; e la testarda, timorosa, bulimica sete di esperienza di Fraser e Caitlin in We Are Who We Are, che si smarca dalle convenzioni del filone dei coming of age.
Senza dimenticare ovviamente Suspiria, forse il più coraggioso dei cimenti cinematografici di Luca Guadagnino, anche solo per l'azzardo nella scelta di confrontarsi con un cult celeberrimo dell'horror d'autore; e, com'era lecito aspettarsi, il suo film più sottovalutato, perlomeno da una fetta di pubblico che ha faticato a districarsi nella rete di echi, di suggestioni e di ellissi di un remake solo apparente. Un'opera che, accompagnata dalle note di Thom Yorke, scivola sinuosa fra l'orrore, il dramma e la fiaba nera, senza voler somigliare a nient'altro, ma esercitando un potere seduttivo paragonabile alle danze ipnotiche delle sue protagoniste. Tanto basta a ribadire il talento di un cineasta che non si è lasciato spaventare dalle critiche né dalle accuse di iconoclastia e non ha mai optato per le soluzioni a portata di mano; consapevole che, molto spesso, il fascino di un film risiede in primo luogo nella capacità di sfidare le certezze dello spettatore.
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