Lost in Versailles
Se ne è parlato tanto e nelle maniere più svariate di questo Marie Antoinette, l'atteso terzo film di Sofia Coppola, fino a che la dura accoglienza al festival di Cannes ha un po' placato tutte le classiche suggestioni che precedono un'uscita di un film, quale che sia la sua vetrina.
Ed è stata un'accoglienza dura, di una freddezza in una buona parte condivisibile ma esagerata nelle manifestazioni più roboanti come i fischi e i versi di disapprovazione. La Coppola ricostruisce la Versailles di fine '700 con i suoi sontuosi costumi e la sua ostentata ricchezza, affidando ad una brava Kirsten Dunst il ruolo della giovanissima regina dell'ultima Francia orleanista, prima della rivoluzione francese. E' lei il centro assoluto e immodificabile del film, con il suo spaesamento, la sua allegria e le sue difficoltà ad integrarsi con i rituali della vita di corte e le aspettative che ne conseguono.
La questione imprescindibile che avvolgeva il film della Coppola e ne orientava ossessivamente, quanto superficialmente, il dibattito preliminare riguardava, riguarda e riguarderà la presunta rilettura pop del soggetto. L'indiscrezione sotterranea più accreditata era comunque quella secondo la quale si stava per vedere una Maria Antonietta alla Baz Luhrmann. Niente di più lontano dalla verità. Se c'è qualcosa di inequivocabilmente pop nel film della Coppola, sono le musiche intriganti e furbette e lo sguardo sul personaggio, rappresentato come un'eterna scanzonata adolescente (in questo senso, l'incipit musicale che accompagna lo scorrere dei titoli di testa è emblematico e fornisce una chiave di lettura privilegiata al narrato). Mai o quasi mai pop, se si escludono giusto alcune sequenze dal montaggio ritmico, è invece la messa in scena che tradisce piuttosto la voglia di Sofia Coppola di confrontarsi visivamente con il film storico in costume alla Barry Lyndon, I duellanti e L'età dell'innocenza. Paragoni ardui ed importanti, molto lontani dal deludente film della Coppola, ma che danno l'idea e forniscono la conferma del gusto estetico della regista americana e del suo talento visivo.
Per comprendere la pochezza di Marie Antoinette si potrebbe discutere ampiamente la scelta di partenza del film, il soggetto stesso quindi, come il suo situarsi con poca lucidità tra la banale agiografia post-moderna e l'affresco storico. Non sono in discussione invece la coerenza e lo stile. In questo senso non conta il risultato deludente: lo sguardo della regista americana è il medesimo che ha animato Il giardino delle vergini suicide e Lost in Translation - L'amore tradotto; il senso di stupore e di smarrimento dei suoi personaggi permane, come i giochi di montaggio sull'astrazione temporale, per rilevare alcune continuità strutturali di facile lettura. In altre parole, Marie Antoinette non è un film che non convince perché lontano dalle corde narrative della sua autrice. E' un film che non convince perché racconta senza profondità e guardandosi di continuo allo specchio, perché ha una scrittura deficitaria ed annoia terribilmente nella sua pedissequa illustrazione dei sontuosi rituali di corte, e soprattutto perché non ha una direzione né un punto di vista forte sulla materia narrata (la coerenza, prima evocata, è un'altra cosa), ma solo un'idea di stile. E Il solo buon gusto non fa buon cinema. Come non lo fa una bella compilation con Cure, Aphex Twin, Radio Dept e New Order.