Lo si capisce fin dal primo frame. Longlegs, scritto e diretto da Osgood Perkins, è solo una questione di ricordi. È la memoria, infatti, che prende il sopravvento, rivelando l'orrore celato e poi, di colpo, rivelato (con uno dei jumpscare più inquietanti degli ultimi anni, questo sì). Con una domanda che, per tutti e 101 minuti, continua a pervadere i pensieri: ma quello di Perkins è davvero uno dei migliori film di paura degli ultimi anni? La risposta, di per sé, non si fermerebbe ad un assolutismo tanto granitico, e anche noi, ripensando al film, continuiamo a credere che sia invece una sorta di bluff. Un meraviglioso bluff. Un rebus, molto più facile a farsi che a dirsi. Un rebus satanico, in cui il diavolo è - come direbbe un vecchio detto - nei dettagli. Questa è la differenza sostanziale tra Longlegs e gli altri horror demoniaci degli ultimi anni, ibridando al massimo il genere, mischiandolo al thriller e viceversa.
Quel pensiero, su quale sia il peso specifico di Longlegs, viene poi continuato ad essere soppesato anche quando si accendono le luci della sala. Come un messaggio subliminale, a restare impresso, più di un mostruoso Nicolas Cage (vera e propria folgorazione, creata ad hoc dalla campagna di guerrilla marketing di NEON), è infatti il primo piano di un'interdetta Maika Monroe alias Lee Harker, sempre più la final girl perfetta di queste tumultuose inflessioni cinematografiche, da It Follows a Watcher.
Longlegs: il diavolo è nei dettagli
E quindi, quello sguardo attonito, fisso su una terrificante bambola, cosa potrebbe rappresentare? Bisogna andare con ordine, se i dettagli contano qualcosa. Bisogna partire dal principio, dall'Uomo di Sotto servito dal killer Longlegs. Un killer per induzione, però. Come Charles Manson, a cui si ammicca durante il film, Longlegs e i suoi (in)decifrabili segnali sono il sintomo espresso di un male generale; un male infettivo e, per certi versi, un male capace di essere tramandato. Viene rivelato nel corso della pellicola che Longlegs è solo il mezzo, non di certo l'artefice. Dal principio ad una non-fine, il thriller di Perkins, ambientato nell'Oregon degli anni Novanta, ma radicato fino alla fine degli anni Sessanta, rivela una contagiosità implacabile, come se il male fosse un virus. Per capire bene il film, andando oltre la mera spiegazione, bisogna proseguire per gradi. Gli stessi gradi di separazione che dividono la detective dell'FBI Lee Harker dall'ossessivo Longlegs, che porta il vero nome di Dale Kobble.
Personaggio già cult. Di quelli da manuale, perfetti per un incubo, diventando tanto meme quanto icona pop. Dale/Longlegs altera il climax del film, anche quando non è in scena. Se l'ultima parte è una sorta di one-man-show, ripassando poi il testimone a Lee Harker (accompagnata nelle indagini dall'Agente Carter di Blair Underwood, per una coppia che ricorda la miglior True Detective), sarà la sua centralità che spiega lo scopo demoniaco: non è direttamente lui l'artefice degli efferati delitti.
Bensì, li delega attraverso la suggestione delle sue spaventose bambole, plasmate secondo il volere di Satana (ossia, L'Uomo di Sotto). Quelle bambole, allora, sono il cavallo di Troia del diavolo, che vanno ad insinuarsi nelle più classiche famiglie americane, indotte verso una suggestione che sfocia nel sangue (simbolicamente, distruggendo l'emblema stesso degli Stati Uniti).
Il patto con il diavolo: il finale del film
Tuttavia, il grado di separazione tra Lee e Dale è poi esplicato prima del finale: la bambina che vediamo all'inizio, negli anni Settanta, è infatti proprio Lee, che si ritrova faccia a faccia con Longlegs. Il maniaco, però, finisce per stringere un patto con la timorata Ruth, la mamma di Lee: se accetta di servire Belzebù, portando le bambole nelle case delle vittime prescelte (lui, con quella faccia, non avrebbe mai potuto: gli serviva un Cavallo di Troia), permetterà a sua figlia di crescere, divenendo colei che riuscirà a catturarlo.
Il più classico dei patti con il Diavolo, insomma. Una cattura che, in verità, si rivela effimera: è ormai troppo tardi quando Lee acquista la definitiva consapevolezza di cosa sia davvero Dale, e di quanto sia coinvolta sua madre Ruth, ingranaggio malevolo di una rete perversa che sembra uscita da uno dei tanti casi di Satanic Panic. Ossia, l'ossessione e la paura popolare per quei riti e quegli abusi (mai totalmente appurati) che hanno contraddistinto la cronaca nera degli Stati Uniti fino alla metà dei 90s.
Così, dopo aver salvato Ruby, la figlia di Carter, dalla possessione demoniaca infatuata da una delle bambola di Dale - sparando prima all'ormai ex collega, e poi sparando alla madre Ruth, che ha recapitato il satanico regalo -, Lee ormai a corto di proiettili, resta a fissare il bambolotto, con un elegante primo piano rafforzato dalla macchina da presa di Perkins. E se Longlegs avesse compiuto il suo piano? E se anche Lee fosse ad un passo dall'essere catturata dal Diavolo. Di più, un altra sobillazione: e se Lee Harker fosse l'ideale seguito di Longlegs, ereditando il volere di Satana, da tramandare, ancora e ancora? Di certo, anche qui non abbiamo certezze. La soluzione finale, come il suo quesito iniziale, nascosto in un baule di ricordi e polaroid, è lasciato - con efficacia - alla nostra percezione. Ma, fissando i titoli di coda che scorrono al contrario, nemmeno fosse Stairway to Heaven dei Led Zeppelin, la soluzione al rebus potrebbe essere tanto soggettiva quanto banale. Banale come il Male.