Lo sberleffo della borghesia
Per Luis Buñuel la borghesia ha un fascino unico.
Il maestro spagnolo, prossimo al termine della sua pluriennale carriera, gira in Francia un film che mantiene intatta la freschezza delle prime opere. Apparentemente senza trama, ripropone come in un loop la stessa scena: protagonisti, un pugno di snob lustri e raffinati. Tre uomini e tre donne, ognuno con un posto di rilievo nella scala sociale: l'ambasciatore Fernando Ray, il ricco uomo d'affari e la sua bella moglie, la giovane "rampolla" con una particolare inclinazione per i cocktail extra-strong.
Si incontrano intorno ad una tavola imbandita, ma dopo gli aperitivi ed il primo boccone di foi grais vengono interrotti e rimandati al successivo appuntemaneto, abbandonando la scena in fughe a volte rocambolesche, a volte sornione, ma comunque tutte ridicole.
E' una borghesia ormai sfibrata che non riesce piu' a cibarsi e quindi a crescere, imprigionata in una bolla di sapone che la tiene al di sopra dei fatti e la espone in vetrina. Si alimenta di convenevoli e parole forbite, ignorando qualunque dialogo, come nell'ultima cena in cui, tutto sembra favorevole a terminare il pasto ma, interrotti da un attacco terroristico vengono sterminati. L'unico a sopravvivere è l'ambasciatore che si rifugia sotto il tavolo e addenta, finalmente, una fetta di carne. Mangia con la voracità di un animale e continua a farlo appena sveglio da quello che si rivela esser stato solo un sogno, a conferma della sua disperata fame di sopravvivenza.
Non è casuale la scelta del superstite: uno straniero scaltro e senza scrupoli che ha fatto dello smoking la sua divisa, ma non esita a contrabbandare cocaina vantandosi con gli amici del maltolto. Un uomo politico, pronto ad uccidere il generale dell'esercito che insulta il suo Paese; non prima di aver dato prova di un'abile conversazione.
Il divertimento nell'assistere all'evidente fastidio che monta nel personaggio, stuzzicato dalla conversazione fasulla degli invitati, padrona di casa compresa ottusamente offensiva, è suscitato da piccoli gesti, sguardi, che attraversano il volto mutevole di Fernando Ray, attore simbolo di Buñuel che non riesce a diventare mai un vero mascalzone.
Come tutti i personaggi del film non è buono né cattivo; questo equilibrio nei ruoli lo rende simpatico anche quando, fa arrestare la giovane sospetta terrorista. Scaltro e vigliacco, è il simbolo di un potere vigile ma al tempo stesso inerme contro i tempi che cambiano e le generazioni che tentano di scalzarlo.
Soldati, terroristi, servitù, ma anche noia, sesso e morte: avversari concreti e non, insidiano la seraficità di personaggi in cerca d'autore, che vagano per il mondo non già in cerca di una meta, ma seguendo la loro strada.
La critica ha cercato di spiegare, senza soluzione di causa, il senso della scena che si ripete come un fil rouge, in cui i protagonisti camminano su una strada asfaltata che taglia un prato verde, sollevata da un venticello gradevole e sospinta verso un cielo azzurro: la mancanza di meta è solo apparente. Non si tratta di un errare della borghesia senza un senso, persa nei meandri di un destino che non ha più cura di lei bensì di una strada ben definita, che ha una provenienza e una precisa direzione, entro i quali margini queste persone si dirigono sicure, verso il loro futuro. Ben attente a non solcarne il ciglio, procedono protette su un nastro d'asfalto liscio, scevro di ostacoli che le sostiene e le guida. Sempre eleganti, i protagonisti camminano eretti e spavaldi, attenti a rimanere in gruppo, come un gregge senza pastore. Una casta affascinante quella borghese che non si rassegna a cedere il passo alle nuove classi sociali più livellate e concrete.
Ed è nel tripudio di abiti da sera, eleganti tovagliati e conversazioni vuote che la classe viene rappresentata e messa alla berlina come nella scena in cui, attirati in un tranello, i personaggi sono esposti in un teatrino da operetta a recitare una parte che solo alcuni riescono ad evitare, sfuggendo ai suggerimenti del'uomo nella botola.
Il sogno e la realtà s'inseguono fino a confondersi in percorsi meta-onirici.
Ecco la firma del regista che gira in pochi mesi una pellicola pienamente surrealista in cui "il tè è finito in una sala da tè" e i personaggi si interfacciano senza un apparente nesso logico né una continuità d'evento.
I suoi sogni e ricordi personali balzano fra le scene col solo intento di raccontare una qualunque realtà senza il bisogno di contestualizzarli alla vicenda, poiché il suo stile è puro istinto.
L'ipocrisia, la falsità e l'inettitudine della classe dipinta, rappresentate senza sforzo esprimono tutto il fascino di un dinosauro che persiste nonostante anacronistico. Anche le passioni inscenate rimangono tiepide perché ammantate di quell'alea di "non si deve" "non si fa", che priva di consistenza le relazioni carnali fino a sfociare nella situazione grottesca in cui il marito sorprende la moglie fedifraga e continua a conversare amabilmente di fronte all'amante in veste da camera.
Una rappresentazione assurda e verissima a cui non sfugge neppure la chiesa che, strizzando l'occhio ai preti operai, viene incarnata dal monsignore che si mette al servizio dei signori, accettando "la tariffa sindacale", vestendosi da giardiniere e diventando per questo irriconoscibile, tornando poi a vestire gli abiti talari, sacri anche quando travolto dall'ira uccide per vendetta un vecchio morente.
Personaggi di plastica, insensibili ed inutili che rappresentano la vacuità della razza umana, certa di valere di più se protetta da una scorza dorata. Mostri non già destinati a finire ma a cambiar pelle, a riciclarsi attraverso gli anni per confermare che non è l'appartenenza sociale ma il marcio che li accompagna a farli sopravvivere ed andare avanti. Lo stesso male che fa sorridere lo spettatore che li sente vicini perché troppo distanti o troppo simili, ma comunque esempi di un'umanità dalle cento facce così cruda da affascinare.