In te c'è più di quanto tu non sappia, figlio dell'Occidente cortese. Coraggio e saggezza, in giusta misura mischiati. Se un maggior numero di noi stimasse cibo, allegria e canzoni al di sopra dei tesori d'oro, questo sarebbe un mondo più lieto. Ma triste o lieto, ora debbo lasciarlo.
Il 30 ottobre 1936, un bambino di dieci anni di nome Rayner Unwin scriveva, in una grafia un po' stentata, il seguente commento: "Questo libro, con l'aggiunta di mappe, non ha bisogno di illustrazioni, è bello e dovrebbe attrarre tutti i bambini di età fra i cinque e i nove anni". Il piccolo Rayner probabilmente non aveva idea che queste poche righe avrebbero reso possibile la realizzazione - e, di conseguenza, lo strepitoso successo commerciale - di quello che rimane forse il più importante e celebrato romanzo per l'infanzia di tutta la letteratura del Novecento: Lo Hobbit, frutto della fantasia dell'autore inglese J.R.R. Tolkien e pubblicato nel 1937 dal padre di Rayner, l'editore Stanley Unwin, persuaso dalla 'recensione' di suo figlio.
Otto decenni più tardi, eccoci ancora qui a parlare di J.R.R. Tolkien e dalla straordinaria eredità che lo scrittore nato a Bloemfontein, in Sudafrica, ha consegnato al nostro immaginario collettivo. Un'eredità che risiede principalmente nel succitato romanzo, Lo Hobbit, e nel suo magnum opus, Il Signore degli Anelli, una maestosa epopea data alle stampe fra il 1954 e il 1955, in tre volumi, e destinata a mutare per sempre il genere letterario cosiddetto fantasy, riuscendo ad incantare ed appassionare intere generazioni (e, a differenza di quanto scriveva Rayner, non solo i lettori fra i cinque e i nove anni).
La popolarità già immensa della narrativa di Tolkien ha beneficiato di nuova linfa vitale a partire dal 2001. In quell'anno, fu il regista neozelandese Peter Jackson a cimentarsi in un'impresa ritenuta a dir poco proibitiva: trasferire la meraviglia delle pagine di Tolkien sul grande schermo. Una scommessa, come sappiamo, vinta su tutta la linea. Dall'esordio de La compagnia dell'Anello, primo capitolo dell'acclamatissima e pluripremiata trilogia cinematografica de Il Signore degli Anelli, sono passati esattamente tredici anni; ed ora, con l'uscita nelle sale de Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate, siamo pronti a dare l'addio definitivo alla Terra di Mezzo (perlomeno in qualità di spettatori).
Terzo ed ultimo tassello della nuova trilogia di Jackson, La battaglia delle cinque armate ci offre l'occasione di tracciare un bilancio su cosa abbiano significato le due trilogie tolkeniane nel panorama del cinema contemporaneo, provando ad instaurare un confronto fra due "saghe gemelle" capaci di suscitare fervidi entusiasmi, stupore infantile (nel senso migliore dell'aggettivo), ammirazione cinefila, ma anche, talvolta, dubbi o perplessità. Con la consapevolezza, in ogni caso, di trovarci al cospetto di un'epopea filmica che può essere ascritta a pieno titolo fra le pietre miliari del grande cinema d'intrattenimento (ma non solo) della nostra epoca...
Piccoli grandi eroi della Terra di Mezzo: i protagonisti
Se c'è un punto rispetto al quale è pressoché impossibile sollevare critiche sulle scelte di Peter Jackson e del suo team è senz'altro il casting: la scelta degli interpreti incaricati di dare corpo, volto e voce ai protagonisti delle opere di Tolkien si è rivelata, per entrambe le trilogie, assolutamente ispirata, al punto da soddisfare perfino i tolkeniani più esigenti. Partendo da Il Signore degli Anelli, difficile immaginare uno stregone Gandalf il Grigio più perfetto e convincente del magnifico Ian McKellen (comprimario anche de Lo Hobbit), veterano del palcoscenico e, prima del 2001, apprezzato al cinema soprattutto per la sua performance nel film Demoni e dei. McKellen, sublime interprete shakespeariano, ha conferito a Gandalf tutto il carisma, l'autorevolezza e la sottile ironia che contraddistinguono per tradizione il personaggio, al punto da essersi aggiudicato, per La compagnia dell'Anello, la nomination all'Oscar come miglior attore supporter. Azzeccatissimo anche il giovanissimo ed allora sconosciuto Elijah Wood, che con il suo viso adolescenziale ha reso come meglio non si potrebbe l'innocenza e la spontaneità dell'improbabile eroe de Il Signore degli Anelli, lo hobbit Frodo Baggins.
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Viggo Mortensen, oggi un attore di primissimo piano, venne assunto a riprese già avviate per subentrare a Stuart Townsend, ritenuto troppo giovane (e forse anche troppo efebico) per il ruolo del prode Aragorn, erede del trono di Gondor: una decisione dell'ultimissima ora, ma che - pure in questo caso - è risultata eccellente, trasformando l'Aragorn di Mortensen in uno dei più apprezzati eroi del cinema contemporaneo. Senza dilungarci ulteriormente, ci limiteremo ad esprimere un consenso generale per il casting del resto della compagnia dell'Anello, che includeva Sean Astin nei panni del fedele compagno di viaggio di Frodo, Sam Gangee, il futuro divo Orlando Bloom in quelli dell'elfo Legolas e il più esperto John Rhys-Davies nella parte del rude nano Gimli. E sebbene abbiano uno spazio tutto sommato limitato all'interno di una narrazione di circa dieci ore complessive, meritano quantomeno una menzione due fra le pochissime interpreti femminili della saga: Liv Tyler, musa di Bernardo Bertolucci in Io ballo da sola, sfodera la giusta commistione di grinta e dolcezza nella parte dell'elfa Arwen, mentre Cate Blanchett, primadonna del cinema mondiale, dà corpo con miracolosa precisione all'eterea bellezza e alla regale autorità della signora degli elfi di Lothlórien, Galadriel.
Passando a Lo Hobbit, se Elijah Wood è stato un impeccabile Frodo Baggins, il ruolo di suo zio, Bilbo Baggins, hobbit tranquillo ed abitudinario trascinato d'improvviso in un'avventura totalmente imprevista, ha goduto di un interprete altrettanto valido: Martin Freeman, che in coincidenza con l'esordio de Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato si guadagnava un'ampia notorietà pure grazie alla parte di John Watson nel serial televisivo Sherlock. Il talento ben temperato di Freeman (preferito da Jackson al più famoso James McAvoy, considerato l'iniziale favorito per il ruolo) resta uno dei maggiori pregi dell'adattamento de Lo Hobbit, che recupera alcuni attori della precedente trilogia (fra gli altri McKellen, Bloom e Blanchett) e schiera un manipolo di volti poco noti, ma adattissimi per i membri della compagnia dei nani, incluso l'inglese Richard Armitage per la parte del sovrano Thorin Scudodiquercia. Promosse a pieni voti, pur non potendo vantare personaggi con la medesima statura iconica di quelli de Il Signore degli Anelli, anche le new-entry Evangeline Lilly, ovvero l'elfa guerriera Tauriel, e Luke Evans nei panni del valoroso arciere di Esgaroth, Bard.
Al servizio dell'Oscuro Signore: gli antagonisti
Se quelli che vi abbiamo presentato sono gli eroi della Terra di Mezzo, cosa possiamo dire a proposito dei villain creati da Tolkien? Su questo versante, è senz'altro Il Signore degli Anelli a potersi giocare le carte migliori, al di là della compresenza, in entrambe le saghe, di orde di orchi di vario tipo e di varie forme.
Ne Il Signore degli Anelli troviamo infatti gli antagonisti più celebri e spaventosi dell'universo tolkeniano: dai Nazgul, la cui prima apparizione, ne La compagnia dell'Anello, avviene sottoforma degli inquietanti Cavalieri Neri, al malvagio Saruman il Bianco, il capo dell'Ordine degli Stregoni, il quale rivelerà il proprio tradimento per appoggiare le forze di Mordor e, ne Le due torri, arriverà a sferrare un terribile attacco all'esercito di Rohan. Ad incarnare il signore di Isengard, passato al "lato oscuro", è un altro attore formidabile: il leggendario Christopher Lee, volto storico del cinema horror dell'era Hammer, impagabile nell'evocare i tratti più sinistri di Saruman anche soltanto con il movimento di un sopracciglio. Al suo fianco compare inoltre l'infido Grima Vermilinguo, servo di Saruman e subdolo consigliere del sovrano di Rohan: ad esprimere il carattere viscido e malevolo del personaggio è l'attore Brad Dourif (chi lo ricorda fra i pazienti del manicomio di Qualcuno volò sul nido del cuculo?). Lo Hobbit, in virtù della sua natura di romanzo per l'infanzia quasi picaresco, non può vantare antagonisti altrettanto memorabili. Il super-villain, in questo caso, è l'orco Azog, trasformato da Jackson nel volto repellente delle forze del male e protagonista, nel finale de La battaglia delle cinque armate, di un memorabile duello con il nano Thorin.
Un discorso più complesso, invece, riguarda l'emblema per antonomasia del Male nella sua dimensione più estrema e metafisica: Sauron, l'Oscuro Signore di Mordor, un'entità innominabile la cui minacciosa presenza aleggia in tutte le pagine de Il Signore degli Anelli, pur senza trovare una rappresentazione fisica. Jackson, al contrario, ha scelto di conferire una sorta di 'concretezza' a Sauron, mostrandolo nel prologo de La compagnia dell'Anello come un guerriero rivestito da un'imponente armatura nera; più fedele allo spirito del romanzo, e alla concezione stessa di Sauron, è stata invece la decisione di suggerire la presenza dell'Oscuro Signore mediante un gigantesco occhio infuocato, visione da incubo che si manifesterà in diverse occasioni a Frodo e ad altri personaggi de Il Signore degli Anelli. In origine, una delle sequenze conclusive de Il ritorno del Re prevedeva un duello finale fra Aragorn e Sauron; fortunatamente, Jackson si è reso conto del proprio errore (che avrebbe fatto perdere all'Oscuro Signore gran parte del fascino derivante dalla sua "invisibilità") modificando tale scena. Nella trilogia de Lo Hobbit, invece, Sauron compare - in maniera fugace, ma con un impatto di indubbia intensità - come il Negromante, una sagoma tenebrosa e indistinta. Ne La desolazione di Smaug, tale sagoma si materializza di fronte ad un attonito Gandalf, ma avvolta in una massa infuocata: quella stessa fiamma che si trasfigurerà poi nel famigerato occhio di Sauron, simbolo del Male assoluto.
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Effetti speciali e creature virtuali: da Gollum a Smaug
Ricreare la Terra di Mezzo e portare sullo schermo alcune fra le sue creature più stupefacenti non sarebbe stato possibile senza l'apporto di effetti speciali avanguardistici che, senza apparire gratuiti o soffocare l'intimo valore della narrazione, sono stati capaci di dare forma, spessore e soprattutto credibilità a scenari, eventi e personaggi: dalla riproduzione degli innumerevoli luoghi in cui sono ambientate le avventure della compagnia dell'Anello e della compagnia dei nani, dalla Contea degli hobbit alle tetre e desolate lande di Mordor (ma sarebbe impossibile nominarli tutti, anche per la loro incredibile varietà), alla cosiddetta crowd replication, applicata da Jackson in entrambe le trilogie per moltiplicare gli eserciti con l'ausilio del digitale ed accentuare così il senso di grandezza e di imponenza delle scene di massa, benché a tal proposito gli esiti migliori e più sorprendenti siano stati quelli de Il Signore degli Anelli (basti rivedere le indimenticabili battaglie de Le due torri e Il ritorno del Re). Non è un caso, pertanto, che la prima trilogia di Jackson abbia conquistato ben tre premi Oscar per i migliori effetti speciali per tre anni consecutivi; meno fortunato Lo Hobbit, che finora ha dovuto accontentarsi della nomination per i suoi primi due capitoli (ma che in compenso può vantare una statuetta speciale per Un viaggio inaspettato).
Ma oltre agli splendidi scenari e alle sequenze belliche, un contributo essenziale degli effetti speciali è stato quello che ha permesso di "portare in vita" alcune creature fantastiche della Terra di Mezzo. Ne Lo Hobbit, l'attenzione era puntata principalmente su Smaug, l'astuto drago che abita all'interno della Montagna Solitaria, e che nell'incipit de La battaglia delle cinque armate avviluppa in un inferno di fuoco la città lagunare di Pontelagolungo: e Jackson non ci ha deluso, proponendoci un drago che corrisponde appieno alla dettagliata descrizione del libro di Tolkien, il quale si lascia ammirare in tutta la sua cupa maestosità (con un punto di bonus per l'ottimo lavoro di doppiaggio da parte di Benedict Cumberbatch). Per il resto, tuttavia, il confronto con Il Signore degli Anelli rimane inevitabilmente sfavorevole, data la sterminata galleria di ceature che popolano la prima trilogia: il mostruoso Balrog, il colossale demone di fuoco che Gandalf affronta coraggiosamente sul ponte di Khazad-Dum, al grido "Tu non puoi passare!"; Barbalbero e gli altri Ent, guardiani della foresta di Fangorn, affascinanti creature assimilabili ad altissimi alberi parlanti; Shelob, il malefico ragno gigante che vive nelle gallerie di Mordor, il quale incute assai più terrore rispetto ai ragni che ne La desolazione di Smaug aggrediscono i nani nel Bosco Atro.
Eppure, l'autentico simbolo delle innovazioni introdotte da Jackson nel campo degli effetti speciali è costituito da una delle figure più famose della Terra di Mezzo: Gollum, un'autentica icona dell'immaginario fantasy (e non solo), nonché indiscusso co-protagonista de Le due torri e Il ritorno del Re in virtù dell'importanza del suo personaggio, la cui parabola è per certi versi speculare al percorso di Frodo. E nel dar vita a Gollum, il risultato di Jackson e soci può essere definito senza esitazione prodigioso: grazie alla rivoluzionaria tecnica del motion capture e alla spiazzante performance 'virtuale' (ma al contempo anche vocale) di Andy Serkis, il quale ha prestato a Gollum movimenti ed espressioni del volto, Il Signore degli Anelli ha restituito come meglio non si potrebbe l'ambiguità e il tormento interiore del Gollum tolkeniano. Gollum lo ritroveremo nelle viscere della terra in Un viaggio inaspettato, nel momento pivotale in cui la strada di Bilbo si incrocia con la sorte dell'Anello di Sauron, ma il suo impatto dirompente ne Il Signore degli Anelli rimane tutt'oggi ineguagliato.
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Into the West: musiche dalla Terra di Mezzo
Un altro indiscutibile elemento di forza, o piuttosto un vero e proprio asse portante della trasposizione cinematografica dell'opera di Tolkien, può essere individuato nelle musiche dei sei film di Peter Jackson: un accompagnamento preziosissimo e di fondamentale rilevanza, sia per accrescere il senso di enfasi e di pathos delle sequenze più emozionanti del film, sia per creare un'atmosfera ancora più totalizzante ed avvolgente attorno allo spettatore, con melodie in grado di imprimersi nella memoria e di associarsi alle immagini con un'alchimia davvero encomiabile (benché talvolta Jackson esageri nell'utilizzo delle musiche). A firmare le soundtrack di entrambe le trilogie è il compositore canadese Howard Shore, vincitore di due premi Oscar per la miglior colonna sonora grazie a La compagnia dell'Anello e Il ritorno del Re; può essere ritenuto ottimo anche il lavoro svolto da Shore per Lo Hobbit, ma gli accompagnamenti musicali de Il Signore degli Anelli rimangono di diritto fra le migliori soundtrack cinematografiche dello scorso decennio.
In termini di musiche, un apporto significativo ai film della saga tolkeniana è rintracciabile pure nelle canzoni che, di pellicola in pellicola, riprendono alcuni temi musicali del film, conferendo una maggiore portata emotiva ai titoli di coda di ciascun episodio. Per Il Signore degli Anelli, si passa dalla melodia estremamente evocativa della bellissima May It Be, interpretata dalla magica voce di Enya (una scelta, quella della cantante irlandese, a dir poco perfetta), alle note vagamente sinistre di Gollum's Song, brano dall'impostazione più melodrammatica, affidato ad Emiliana Torrini (ingaggiata dopo il forfait di Björk), per arrivare poi a Into the West, in cui è la voce più calda e carezzevole della mitica Annie Lennox a suggellare, fra intensità e commozione, l'addio ai protagonisti della trilogia; e la struggente canzone della Lennox, scritta insieme ad Howard Shore, è stata ricompensata con un meritatissimo Oscar. Pregevoli, ma di minor impatto, i brani di chiusura dei tre film de Lo Hobbit, per i quali le tre voci femminili della precedente trilogia cedono invece il posto a tre voci maschili: il cantautore Neil Finn per Song of the Lonely Mountain, il giovanissimo e già affermato Ed Sheeran per I See Fire, con un'intro a cappella e sonorità folk, ed infine la commovente ballata (dal titolo emblematico) The Last Goodbye, che si dipana tramite la voce di Billy Boyd, l'interprete dello hobbit Pipino, il quale aveva già cantato The Edge of Night durante una sequenza de Il ritorno del Re.
Dalla pagina allo schermo: Il Signore degli Anelli
Le considerazioni conclusive della nostra analisi riguardano un aspetto centrale del "fenomeno Tolkien" al cinema, dal quale non è possibile prescindere: le modalità di adattamento adottate da Peter Jackson e dalle sue co-sceneggiatrici Fran Walsh e Philippa Boyens, ai quali per Lo Hobbit si è aggiunto anche Guillermo del Toro. Le trasposizioni delle due trilogie tolkeniane, difatti, comportavano sfide e difficoltà diamentralmente opposte: per Il Signore degli Anelli, si trattava di confrontarsi con un'opera fluviale, un capolavoro di oltre milleduecento pagine; per Lo Hobbit, al contrario, Jackson ha sviluppato nell'arco di tre film (per un totale di otto ore) la storia di un romanzo molto denso a livello di avvenimenti, ma lungo appena trecento pagine. La prima saga fantasy del regista neozelandese, pertanto, era caratterizzata da una necessaria riduzione rispetto allo sterminato materiale narrativo a disposizione. Jackson, in particolare, ha accorciato o eliminato alcuni passaggi più 'solari' relativi ai capitoli iniziali nella Contea e alla partenza degli hobbit, fra cui il loro incontro con Tom Bombadil, il signore del bosco, e il passaggio per Tumulilande: una decisione molto funzionale, che ha permesso a La compagnia dell'Anello di guadagnare in ritmo e concisione.
Ed è proprio il ritmo, sempre spedito ed incalzante, uno degli ingredienti del racconto cinematografico de Il Signore degli Anelli: Jackson, pur conservando alcune sequenze sui confronti fra i personaggi e sui loro "momenti di riposo", non allenta mai troppo la tensione, trasmettendo allo spettatore il senso di pericolo incombente che grava su tutta la Terra di Mezzo. Gli autori, inoltre, portano in rilievo il subplot romantico legato alla storia d'amore 'impossibile' fra Aragorn e Arwen (pur senza rubare troppo spazio alla linea narrativa principale), ma per il resto si mantengono sostanzialmente fedeli sia allo spirito del classico di Tolkien, sia alla struttura stessa del romanzo, con un rispetto quasi filologico nei confronti dello scrittore inglese. L'unico appunto può essere avanzato nei confronti della versione cinematografica de Il ritorno del Re, dalla quale - a differenza della versione estesa - è assente il definitivo faccia a faccia, a Isengard, tra Gandalf, gli hobbit, Théoden (Bernard Hill) e un Saruman ormai sconfitto, asserragliato nella torre di Orthanc: un'incomprensibile omissione che avrebbe invece arricchito il film proiettato nelle sale.
Andata e ritorno: Lo Hobbit al cinema
Più complessa, invece, la questione dell'adattamento de Lo Hobbit, con un'esigenza inversa: 'dilatare' il più possibile le varie fasi dell'avventura di Bilbo e della compagnia dei nani, instaurando nel frattempo un'esplicita connessione fra gli eventi di questo prequel e quelli de Il Signore degli Anelli. L'aderenza filologica al testo di Tolkien, in questo caso, è stata sostituita da un'ampia libertà narrativa, i cui esiti però si sono rivelati altalenanti. Se infatti Un viaggio inaspettato è stato in grado di fondere la dimensione quasi favolistica del romanzo con la maggiore solennità delle sequenze di battaglia e della sottotrama sul Negromante, a tratti tale equilibrio si è incrinato rischiosamente ne La desolazione di Smaug: in questo secondo capitolo, gli inserti di Peter Jackson - orchi onnipresenti e scontri prolungati oltremisura - non sempre funzionano a dovere, dando spesso la sensazione di essere dei meri riempitivi. In compenso le apparizioni del Negromante, anche grazie alla loro brevità, sono orchestrate in maniera superba, regalando veri brividi al pubblico.
Tali 'smagliature' nel meccanismo narrativo sono state corrette solo in piccola parte nell'ultimo capitolo della saga, La battaglia delle cinque armate: sia per il fatto che si tratta dell'episodio dalla durata minore (144 minuti), sia perché Jackson costruisce tutta la seconda metà del film come un unico, immenso conflitto giocato però su piani differenti, pur con prolissità ed eccessi, concedendo il giusto spazio a tutti i protagonisti. In tal modo, trovano una ragion d'essere (e una degna conclusione) sia la storia d'amore tra l'elfa Tauriel e il nano Kili (Aidan Turner), sia la parabola di Thorin Scudodiquercia, di cui gli autori mettono in risalto l'ambizione e l'avidità smisurate che sfociano nella corruzione del suo animo... lasciando però al personaggio l'occasione di redimersi e di consumare un emblematico sacrificio, affrontando Azog, il condottiero degli orchi, in uno dei duelli più spettacolari e suggestivi dell'intera saga. Poco più tardi, al termine della battaglia delle cinque armate, Gandalf e Bilbo si siederanno l'uno accanto all'altro, e lo hobbit osserverà in silenzio lo stregone preparare il tabacco per la sua pipa. E paradossalmente è proprio in momenti come questi, quando gli eroi ripongono le armi e lasciano affiorare la loro umanissima fragilità, che la narrazione epica di Jackson riesce a regalarci le emozioni più profonde ed autentiche, rendendo ancor più malinconico il nostro addio alla Terra di Mezzo.