Mentre scriviamo la recensione di Little Voice, la nuova serie Apple Tv+ original in catalogo dal 10 luglio con i primi tre episodi, ci sentiamo come la protagonista Bess King, mentre appunta su ogni foglio, tovaglietta, mano, angolo possibile un verso d'ispirazione quando gliene viene uno. Vi ricordate che spesso le più coinvolgenti esibizioni di Glee non erano quelle con una grande scenografia, costumi o oggetti di scena ma solo pochi sgabelli e qualche maglia colorata? Ecco, è nella semplicità che troviamo la vera forza di una canzone. Ed è su questa falsariga che è costruita Little Voice, prodotta da J.J. Abrams e Sara Bareilles, che ne ha composto la colonna sonora e supervisionato i dialoghi, perché è nelle piccole e semplici voci che a volte si trova il suono più grande. La piccola voce del titolo è quella di Bess, a cui presta volto e voce Brittany O'Grady (già vista in Star della FOX). Bess è un po' la Felicity musicale di Abrams, una ventenne che vediamo fare mille lavori nel corso della giornata, dà lezioni di musica, fa la dog sitter, lavora in un pub con serate musicali. Guarda gli altri esibirsi e si complimenta con loro, ma non lo fa mai in prima persona. Si è affittata un garage dove comporre in assoluta privacy, perché nessuno dovrà mai ascoltare la sua musica.
PROCESSO CREATIVO
Una premessa un po' antitetica per uno show musicale, vero? Ma come dice una delle "sue" canzoni, "cantare vuol dire mettersi a nudo, dire agli altri chi sei e sperare non ti insultino". È davvero difficile per alcuni di noi fare la voce grossa, farsi sentire, puntare i piedi, sgomitare, per timidezza, per paura, per timore di non avere il tanto agognato talento, di essere solamente una goccia nell'oceano. La storia di Bess comprende una famiglia di umili origini, una madre che non c'è e un fratello minore che ha bisogno di particolari attenzioni, che ha uno sguardo tutto suo sul mondo e proprio per questo è in fondo la roccia di Bess, la sua coscienza e anche colui che la sprona. Come nasce una canzone? Il processo creativo musicale è qualcosa di molto intimo, personale, interiore, quindi una delle difficoltà della serie era proprio metterlo in scena in modo che risultasse interessante. Sarà il sapore indie, saranno i dialoghi infusi di dolcezza ma non stucchevoli, saranno gli interpreti in parte, ma tutto è incastrato al posto giusto, nel suo piccolo, in questa piccola grande dramedy musicale.
L'appuntare ovunque capiti dei versi per una canzone della giovane protagonista è un gesto che ci viene mostrato in modo così naturale che ci fa entrare più che nella sua testa, nel suo cuore, nella sua anima, che ci fa entrare subito in sintonia con quelli che sono i suoi parametri e le sue regole, che si è data per non essere ferita un'altra volta dopo essersi esibita ed essere stata derisa sul palco. Proprio come tutti gli aspiranti cantautori visti a*Nashville (tanto la città quanto l'omonima serie tv).
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CANTA CIÒ CHE CONOSCI
"What you are feeling now... use it. It's gonna make a great song"
Si dice di scrivere di ciò che si conosce, quindi perché non applicare lo stesso consiglio al canto? come dice il padre a Bess ad un certo punto. La ragazza dovrebbe superare le proprie paure o ancor meglio usarle per affrontare l'ansia da palcoscenico? Parafrasando una canzone, "music is all around me", e la musica è davvero tutto intorno alla protagonista. Il fratello è un grande appassionato di musical teatrali, che cita a non finire anche quando nessuno vuole sentirli, il padre canta per strada con un gruppo a cappella, la coinquilina è in un gruppo mariachi al femminile nonostante sia indiana. Ed anche la musica che si sente e si vede per le strade della Grande Mela è variegata, variopinta proprio come la metropoli stessa, rappresentando così la sua natura cosmopolita. C'è un gioco di luci bellissimo nella fotografia della serie, tra i vicoli e i quartieri della city. C'è una delicatezza e una dolcezza palpabile nei dialoghi, negli sguardi, nelle inquadrature che lo showrunner Jessie Nelson e i vari registi degli episodi hanno cercato di tenere in piedi in un delicato equilibrio.
Non è uno show autobiografico su Sara Bareilles, come lei stessa ha dichiarato, ma piuttosto la storia di un'aspirante cantautrice che contiene tanti piccoli aneddoti sulla vita di Sara, con brani da lei composti. Ma la piccola voce del titolo è anche quella degli altri personaggi, che vogliono farla sentire a tutto il mondo, sperando di non essere giudicati ma accolti, abbracciati, accettati. Sempre parafrasando un modo di dire, "cantate come se nessuno stesse guardando". Little Voice è una serie "da vivere", o meglio da ascoltare e interiorizzare, che per quella mezz'ora alla settimana (la durata è efficacemente scelta e la distingue nel panorama come già fatto con Servant) può trasportarci in un universo che ci faccia stare bene con noi stessi. Una serie dolce, delicata e intima come la voce di Sara Bareilles.
Conclusioni
Chiudiamo la recensione di Little Voice, con un senso di appagamento e con la stessa dolcezza con cui la abbiamo iniziata, poiché è una serie che “fa stare bene”. Funziona la breve durata degli episodi, funziona l’appuntamento settimanale, funzionano i dialoghi, funziona la protagonista, funzionano gli altri interpreti, funziona l’equilibrio fra musica e trama. Insomma, Little Voice è una serie che è in armonia con se stessa e con il resto del mondo.
Perché ci piace
- L’equilibrio tra musica e storia da raccontare, con un buon intreccio.
- Gli attori tutti in parte, a cominciare dalla protagonista Brittany O'Grady.
- La durata breve (mezz’ora) degli episodi e l’inserimento di tanti generi e brani musicali, non solo canzoni di Sara Bareilles.
- La New York che si vede nella serie, affascinante e piena di luci.
Cosa non va
- Potrebbe essere poco coinvolgente per chi non ama le serie musicali o comunque in parte cantate.