Sessantacinque anni (li compirà fra pochi giorni, il 22 novembre), il corpo appesantito ma ancora agile mentre sale sul palco del Cinema Adriano e soprattutto l'immancabile bandana che l'ha sempre accompagnato fuori dal set e nei suoi concerti: quei concerti che, a partire dal 1975, dall'epoca del mitico album Born to Run, l'hanno visto esibirsi in centinaia di occasioni come chitarrista all'interno della leggendaria E Street Band di Bruce Springsteen. Lui è Steven Van Zandt, nato a Boston e cresciuto in New Jersey, un nonno calabrese e un quarto di sangue italiano che, manco a dirlo, gli ha spianato la strada per interpretare personaggi italoamericani.
Perché se gli amanti della musica e i fan di Springsteen l'hanno conosciuto come Little Steven, applaudendolo durante numerosi concerti del Boss, in parallelo all'attività di musicista e di produttore discografico Steven Van Zandt ha intrapreso con successo anche la professione di attore: prima con I Soprano, la serie di culto della HBO in cui vestiva di panni del mafioso Silvio Dante, intimo amico del boss Tony Soprano, e dal 2012 in Lilyhammer, serie di co-produzione scandinava in cui Van Zandt, oltre a prestare il volto al boss in incognito Frank Tagliano, costretto a stabilirsi in Norvegia nel programma di protezione testimoni dell'FBI, svolge anche i compiti di produttore, di co-autore e all'occasione di regista.
E mercoledì pomeriggio abbiamo incontrato Steven Van Zandt a Roma, dopo la proiezione in anteprima dell'episodio finale di Lilyhammer (in onda in Italia su Sky Atlantic) nell'ambito della giornata inaugurale della nona edizione del RomaFictionFest: un Festival in cui Van Zandt, oltre a ricoprire l'incarico di Presidente di Giuria del concorso, è stato anche il destinatario dell'Excellence Award, il premio alla carriera assegnatogli per il suo contributo al mondo della serialità televisiva, al termine di una lunga masterclass in cui Little Steven ci ha raccontato della sua esperienza con Lilyhammer e I Soprano e di come si è trovato a dirigere il collega Bruce Springsteen in un'inedita veste d'attore...
Lilyhammer: un boss in incognito
Steven, com'è nato un progetto così particolare come Lilyhammer?
Mi trovavo in Norvegia per fare da produttore a un gruppo musicale e ho incontrato una coppia di autori che avevano scritto per me il soggetto di una serie televisiva incentrata su un mafioso che, attraverso il programma di protezione testimoni, doveva trasferirsi nella cittadina norvegese di Lilihammer. Si trattava di un personaggio molto diverso da quello che avevo interpretato ne I Soprano; inoltre, per me era una novità assoluta lavorare in un paese straniero.
In seguito come siete riusciti a far decollare il progetto e quali sono state le peculiarità di realizzare una serie TV in Norvegia?
Innanzitutto ho scritto la sceneggiatura: il soggetto originale era una commedia, però io non volevo realizzare una farsa, ma un dramedy, in modo da bilanciare i momenti di tensione e i momenti di humor. Il mio personaggio doveva capire il norvegese senza però riuscire a parlarlo, e vi confesso che ci sono un sacco di persone così in Norvegia! Lavorare in Norvegia non è stato semplice, ci sono enormi differenze fra la loro TV e quella americana. In Norvegia gli attori sono abituati a improvvisare, e in TV non è lo showrunner che comanda, ma il regista: il primo giorno sul set il regista faceva come voleva, quindi abbiamo dovuto discutere per arrivare a un punto d'incontro. Inoltre abbiamo avuto un solo stuntman per tutte le tre stagioni: gli attori in Norvegia non vogliono usare gli stuntman, neppure quando devono tuffarsi in mezzo ai ghiacci... per una scena così in America servirebbero mesi di preparazione, in Norvegia in caso di incidenti si limiterebbero a chiamare un'ambulanza. Ho passato cinque, sei mesi all'anno in Norvegia, e quando vivi e lavori in un paese riesci a capire davvero la loro cultura. Sono stato lì sempre nei mesi più freddi: tutte le sere c'era una neve alta due metri, ma loro lasciano che si accumuli perché non sanno dove metterla!
Qual è stato l'impatto di Lilyhammer a livello internazionale e negli USA?
Noi abbiamo portato la cultura televisiva in Norvegia: Lilyhammer è stata la prima serie locale a essere venduta al di fuori della Scandinavia e la prima serie a essere trasmessa negli Stati Uniti anche con i sottotitoli, essendo recitata in parte in lingua norvegese. Per me è stata un'esperienza straordinaria, negli USA non riusciamo mai a vedere le grandi serie straniere... forse si tratta dell'inizio di un'era! A volte basta un attore anglofono, all'interno di una serie, per permettere di arrivare al mercato americano, perché agli americani non piacciono i sottotitoli... siamo pigri! Ma con Lilyhammer i sottotitoli non sono stati più un problema per il pubblico. Del resto, dopo il pilot avevamo far bisogno di finanziamenti americani per proseguire le riprese: in media un episodio di una serie TV ha un costo di tre milioni di dollari, ma noi siamo riusciti a confezionare la serie con una media di due milioni a episodio.
Come mai per Lilyhammer ha scelto di rivestire anche l'incarico di produttore?
Voglio sempre imparare cose nuove, ed era il momento giusto: in TV il regista a volte è come un vigile con il compito di dirigere il traffico, mentre io volevo avere anche un ruolo creativo. Non riesco a separare l'attività di artista e quella di produttore, ho sempre fatto di tutto, anche in campo musicale. In televisione, fai il produttore per proteggere la scrittura: si produce per difendere la propria arte.
Ricordando I Soprano: una rivoluzione culturale in TV
La tua svolta professionale, come attore, è arrivata con I Soprano: cosa ricordi di quell'esperienza?
Per me è stata la migliore scuola televisiva, in qualità di attore. All'inizio non ti accorgi che stai prendendo parte a una svolta storica, ma poi abbiamo capito cosa stava diventando I Soprano. La HBO ha introdotto un nuovo concetto di TV, realizzata per un pubblico di abbonati adulti, mentre il cinema si rivolgeva e continua ancora oggi a rivolgersi quasi esclusivamente a bambini e adolescenti, al di là di una ventina di film l'anno realizzati per concorrere agli Oscar. David Chase era un genio e voleva infrangere tutte le regole televisive con un'idea inedita per il suo protagonista: un uomo né buono né cattivo, ma immerso in un'area grigia. Tony Soprano è un eroe o un villain? James Gandolfini ha dato vita a un personaggio carismatico e affascinante. La HBO, David Chase e James Gandolfini: tre fattori arrivati al momento giusto che hanno trasformato la TV. Io per coincidenza mi trovavo lì, ed è stato bello veder sorgere l'età d'oro della televisione.
A cosa pensi sia dovuto l'enorme impatto de I Soprano sull'immaginario collettivo?
I Soprano era una serie di cui la gente parlava la mattina dopo la messa in onda, era un argomento di conversazione obbligato. Ha inciso sulla TV per la sua capacità di rispecchiare la realtà: dopo aver guardato I Soprano, se provavi a cambiare canale ti accorgevi di avere di fronte spazzatura hollywoodiana. In questo, David Chase è stato molto innovativo. Voglio raccontarvi un aneddoto a proposito: dopo aver letto il copione, ero rimasto sconvolto dal personaggio di Livia, la madre terribile di Tony Soprano. Così ho detto a David: "Chi prenderà sul serio questa madre? Le mamme italiane non sono affatto così!". Lui mi ha risposto: "Livia Soprano in realtà è identica a mia madre". E ha avuto ragione, perché il pubblico l'ha seguito. Eppure, per l'epoca, il pilot era stranissimo: un boss che va in crisi di fronte a uno stormo di uccelli...
Qual è la tua opinione sulla controversa ricezione della serie presso la comunità italoamericana?
Si tratta di una questione ancora controversa, e forse lo è anche in Italia. Noi però non avevamo intenzione di rendere romantica la Mafia, ma mostrarla al contrario come un lavoro noioso. I nostri personaggi non sono come i gangster degli anni Venti, ma si comportano come se facessero un lavoro qualunque e fanno fatica a tenere in equilibrio le loro famiglie con la "Famiglia".
Cosa pensi invece del discusso finale de I Soprano?
Cinque anni dopo la fine della serie, Vanity Fair ha realizzato un servizio in cui ha chiesto a tutti i membri del cast la loro opinione su cosa sia accaduto nel finale de I Soprano. Ora dirò anche a voi cosa è successo esattamente nel finale: il regista ha detto "Stop!" e gli attori se ne sono tornati a casa!
La TV, la musica e Bruce Springsteen
Per Lilyhammer sei stato anche il supervisore musicale: cosa pensi dell'importanza della musica per la narrazione televisiva?
Penso che attraverso la musica si possa mutare completamente il senso di un'intera scena. Alcuni brani della colonna sonora possono essere usati per integrare il racconto, oppure in funzione contrastiva. Bruce mi ha permesso di usare Born to Run per un episodio, mentre Peter Gabriel mi ha concesso i diritti di In Your Eyes, e me li hanno ceduti entrambi a bassissimo costo. Oggi l'industria discografica è agonizzante e la maggior parte degli introiti provengono dai diritti musicali, non dalle vendite: noi però avevamo solo centomila dollari da spendere per i diritti sulle canzoni, ma sono riusciti a ottenerli a un prezzo favorevole. Amo molto anche la musica locale e tradizionale norvegese, e ho voluto integrarla con canzoni più famose, che servono invece a suscitare un senso di familiarità nello spettatore.
Infine, come ti sei trovato a dirigere Bruce Springsteen come guest star nell'episodio finale di Lilyhammer?
Volevo che Bruce avesse una parte significativa ma senza farlo lavorare troppo e adattando il personaggio a lui, e ho trovato una soluzione: il suo personaggio, Giuseppe Tagliano, è un tipo esperto, disciplinato. Quando svolgi il ruolo di regista devi fare sì che gli attori diano il meglio di sé: quello fra regista e attori è un rapporto importantissimo. Per quanto mi riguarda, mi sono reso conto che in Lilyhammer sono migliorato molto come attore perché sono stato più istintivo e spontaneo: essendo anche sceneggiatore e produttore avevo sempre mille cose da fare e quindi non avevo tempo per prepararmi alle scene da interpretare.