Liliana Cavani: "Il portiere di notte? Non andò in onda sulla Rai, l'ambasciata tedesca non voleva"

Il Ravenna Nightmare Film Fest è stata l'occasione di rivedere la versione restaurata de Il portiere di Notte e di parlare con Liliana Cavani: di questo film, e di altri che andrebbero riscoperti.

Una foto di Liliana Cavani
Una foto di Liliana Cavani

La proiezione della versione restaurata de Il portiere di notte di Liliana Cavani è stato uno dei momenti clou del Ravenna Nightmare Film Fest 2019. La serata di sabato 2 novembre, al Palazzo dei Congressi, è stata l'occasione per rivedere questo capolavoro del cinema e di incontrarne la regista. Rivedere Il portiere di notte oggi fa ancora un grande effetto: è un film che non è invecchiato per niente, è ancora attualissimo.
Da uno spunto reale, quello di una donna che aveva incontrato il suo lato oscuro in un'esperienza nei campi di concentramento durante il Nazismo, Liliana Cavani è riuscita a creare un racconto universale, un apologo sulla parte più nera di tutti noi che, in determinate occasioni, riesce a venire fuori, sull'impossibilità di superare davvero certe esperienze.

Il portiere di notte è un film sull'incontro con il Male, e su quel Male che non può più andare via da noi. Ed è reso con una grande eleganza formale da un lato, e con interpretazioni appassionate dall'altro. Charlotte Rampling, Dirk Bogarde, Philippe Leroy e Gabriele Ferzetti sono le punte di diamante di un cast perfetto.

Charlotte Rampling in una scena de Il portiere di notte
Charlotte Rampling in una scena de Il portiere di notte

E poi c'è quella scena diventata ormai un cult. L'idea di ricreare, nei flashback sui lager, una scena biblica come quella di Salomè, e metterla in scena dando vita a un'immagine iconica come quella di Charlotte Rampling a torso nudo, coperta solo da due bretelle, un paio di pantaloni, e un berretto militare sul capo, è un'intuizione geniale che ci parla di un'autrice in stato di grazia. Di tutto questo, e di molto altro, ci ha parlato Liliana Cavani in un'intervista appassionata.

Il film che è stato restaurato, e quello che lo meriterebbe

Qual è l'importanza di questo restauro?

Sono molto grata che sia stato fatto, e spero che venga fatto anche per altri due-tre film. In questo modo la gente vedrebbe una pellicola com'era. Il cinema è come un libro: puoi rileggerlo anche anni dopo. Se invece è offuscato, non è chiaro, non lo si vede nella maniera giusta. Come la recitazione, anche la fotografia e il sonoro sono elementi fondamentali. Il restauro secondo me si impone.

Che altri suoi film vorrebbe vedere restaurati?

Liliana Cavani
Liliana Cavani

Un film che feci, con poche lire della Rai, nel 1972: L'ospite. È introvabile. La proprietà del film è della Rai, e la Rai restaura pochissimo. C'era un cineclub, che aveva proiettato I cannibali, a Pistoia. Alla fine del film mi presentano un gruppo di persone, erano ospiti del manicomio provinciale di Pistoia. Il gruppo di ragazzi che avevo conosciuto andava a distrarli un po' il sabato e la domenica. Erano seicento, trecento donne e trecento uomini. Non c'era stata ancora la riforma Basaglia: così mi sono trovata chiusa in uno stanzone, con una quarantina di donne, anche ragionevoli, alcune stranite. Una ragazza aveva le braccia fasciate, si era addormentata con le braccia sul termosifone. Non hai paura a stare qua con noi? Mi hanno chiesto. Ma a me non importava essere chiusa a chiave. La capo infermiera mi raccontò che molte persone stavano lì da tanto. Una ragazza era lì da quando aveva 14 anni: aveva subito uno stupro da soldati tedeschi, era rimasta così sconvolta da aver perso la testa, e la sorella aveva fatto da madre alla figlia nata da questo stupro. In campagna non c'erano mezzi per far curare le persone, e ogni regione aveva questi posti, i suoi cestini di scarti: i pazienti vengono chiamano ospiti, è una parola ridicola. Chiesi alle infermiere se i dottori facessero delle visite. Ma quali visite, quale cura? Era una specie di prigione. Nel caffelatte della mattina mettono un calmante. E così rimangono intorpiditi. Ho deciso di fare un film su queste persone, chiamandolo L'ospite. Lucia Bosé fece la protagonista, non abbiamo pagato nessuno e lo abbiamo potuto fare con pochi soldi della Rai. Andò a Venezia, non prese premi. È un film che la Rai avrebbe potuto trasmettere nel momento in cui si è presa coscienza di questa situazione.

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Charlotte Rampling e Il portiere di notte

Come è nata l'immagine iconica di Charlotte Rampling ne Il portiere di notte?

Quell'immagine è nata perché dovevo girare questa scena, da Piero Tosi, un grande costumista e me, che gli ho spiegato cosa avrei voluto vedere. Non pensavamo certo che venisse messa nel manifesto e usata in tutte le uscite del mondo.

Come ha scelto di raccontare il Male, e il Nazismo, con questa vicenda privata?

Il Portiere Di Notte
Il portiere di notte

Il portiere di notte nasce da un documentario. Per la Rai, nel 1965, girai La donna nella Resistenza, che secondo me avrebbero dovuto divulgare di più. La Rai non è mai coraggiosa, cambiano i governi e le direzioni, a volte ci sono i coraggiosi, a volte i titubanti. La donna nella Resistenza è stato l'unico documentario sulla Resistenza femminile in cui si vedono le donne partigiane, quelle che hanno combattuto. Quando ho chiesto loro perché lo avessero fatto, mi hanno risposto: per un mondo migliore, perché le donne siano valorizzate a tutti i livelli. Perché venga capito che la donna possa fare molto di più, che venga rispettata. Una di queste donne mi ha dato lo spunto per Il portiere di notte, era una milanese di famiglia borghese, che faceva la Resistenza. È finita ad Auschwitz, e mi raccontava che la sua famiglia, vedendola incapace di riprendere la vita normale, le diceva: "stai serena, mettici una pietra sopra". È andata a vivere da sola. Con me non riusciva a parlarne. Poi invece non riuscivo più a frenarla. Le ho chiesto: ma cos'è che l'ha turbata, che non perdonerà mai ai nazisti? Mi ha risposto: di avermi fatto trovare dentro di me la capacità di un'azione che non avrei mai pensato di fare. Mi ha fatto capire che, pur di campare, ha fatto cose di cui si vergognava, che non accettava, che faceva fatica a sistemare. Aveva conosciuto una parte di se stessa capace di fare del male. Mi ha detto solo questo: "Ho incontrato il Male, il Male vero". È una parola che ha dentro tanti contenuti. Il click che ha fatto nascere il film è spuntato da lì.

E che storia ha immaginato, partendo da questo spunto?

Ho immaginato la protagonista come una donna che è stata in un campo di concentramento, dove ha amato questa persona, un nazista, l'ha subita, e non è riuscita a ritrovare un equilibrio, proprio come la mia intervistata. Lei aveva delle ragioni che non mi ha detto. E quindi si fa fatica a entrare in un'esperienza del genere. Se non avessi fatto prima il documentario questo film non sarebbe venuto fuori.

Cosa ricorda del momento dell'uscita de Il portiere di notte?

Quando è uscito in America il distributore ha comprato due pagine del New York Times. Sul giornale c'era una pagina di critiche negative, e sull'altra pagina quelle positive. Per molti era come se avessi fatto un film sul sesso. E così qualche imbecille mi propose di girare Salon Kitty, ho risposto che era un cretino. Quando decisero si mandarlo in onda su Rai 1, che allora aveva quattro milioni di spettatori, l'ambasciata tedesca fece capire di non gradire. E abbiamo accettato, non è stato trasmesso su Rai 1 per una questione di buoni accordi con la Germania.

Raccontare la Storia

Si è trovata spesso a raccontare la Storia...

Liliana Cavani sul set della fiction Troppo amore
Liliana Cavani sul set della fiction Troppo amore

Ho fatto Philippe Pètain. Processo a Vichy e Età di Stalin. Diciamo che mi sono occupata spesso di Storia. Ritengo che sia assurdo, colpevole non raccontare la Storia, visto che c'è il cinema che può farlo. E visto che ci sono persone che fanno i negazionisti. Ricordo un film sugli ultimi giorni di Hitler, La caduta - Gli ultimi giorni di Hitler con Bruno Ganz. Gli ho detto che non avrei mai prestato il mio volto a Hitler: Bruno Ganz dava umanità a un personaggio che non ne aveva. I negazionisti li obbligherei con la pistola a vedere le immagini dei lager. La Storia è così importante che bisogna raccontarla. Ero laureata in lettere antiche e conoscevo solo la storia del Peloponneso.

È stato difficile a quel tempo per una donna riuscire a fare un lavoro come la regista?

Mi posso dire fortunata. Non ho trovato difficoltà: ho fatto il Centro Sperimentale e ho vinto un concorso alla Rai, uno dei rari, erano 30 posti per 12mila aspiranti. Ho rifiutato il contratto, non mi interessava la carriera di burocrate. Volevo fare il mio lavoro: li ho colpiti e ho cominciato a fare dei documentari. Mi interessava la Storia, e con un funzionario molto in gamba abbiamo affrontato questi temi. È stato interessante. Da bambina mi ricordavo un bombardamento che avevo sentito mentre ero in cantina, ma sulla guerra non sapevo nient'altro. Il cinema nella mia vita c'entra sempre. Avevo una mamma che mi portava al cinema tutte le domeniche pomeriggio da quanto avevo quattro anni. Quando non c'era mamma, una zia mi portava alle tre e mi veniva a prendere alle otto: vedevo i film due volte.

Cosa ci può raccontare di Milarepa?

Il film fu distribuito dall'Aiace, una piccola distribuzione che usciva in sette-otto copie. Ha distribuito I cannibali, che è andato a Cannes e poi a New York. Ai tempi di Milarepa leggevo libri su altre religioni: volevo andare in India, e sono stata lì cinque o sei settimane, con Italo Moscati che faceva la sceneggiatura per me. Girammo in India e in Nepal. In Tibet non si poteva, dal 1955 è cinese. Da Katmandu c'era un piccolo aereo che andava a Pokhara. Poi andai anche a trovare Fosco Maraini, il padre di Dacia Maraini che era un tibetologo, ma questo sopralluogo mi permise di fare il film in maniera giusta. Mettere come protagonista qualcuno che legge un libro, e inizia a vedere un altro modo di pensare dal nostro. In quel viaggio ho visto i contadini di Pokhara: erano figure eleganti, vestite di roba vecchia ma ben fatta, persone sempre sorridenti. Evidentemente un'altra religione dà altri pensieri, non tutti al mondo ragionano come noi. Sono andata a girare in Abruzzo, sul Gran Sasso, dove ci sono vette e vallate bellissime. L'Abruzzo era adatto a raccontare il Tibet, e così ho fatto, raccontandolo attraverso il personaggio di uno studente che lo stava studiando.

Quell'incontro con Mickey Rourke

Cosa ricorda dell'incontro con Mickey Rourke per Francesco, del 1989?

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Mickey Rourke in Francesco

È stata un'esperienza bellissima. Mi era piaciuto ne L'anno del Dragone. Io cercavo una persona seria, credibile, anche se un po' folle. Mickey Rourke era molto simpatico, ho voluto incontrarlo, anche se il mio produttore temeva le sue richieste. Rourke stava girando un film a New York, ci ha dato un appuntamento di sera fuori New York, era dicembre, era tutto chiuso, c'era solo un albergo. Abbiamo mangiato una pizza in due, aveva finito di lavorare alle dieci di sera, e ci siamo seduti sulla moquette a mangiare questa pizza. Ricordo che ravanava in una sacca, era molto umano, gentile, spontaneo, mi ha dato una sensazione molto bella. Mi chiese: "Come dovrei essere in questo film?" E da quello che avevo visto in quel momento dissi: "Come sei". È venuto una settimana prima, il produttore si è seccato anche di quello.

Ma non potevamo andare sul set senza parlarne prima. Così ci siamo visti tutti i giorni a parlare della vita: ho raccontato i miei problemi con mio padre, anche lui aveva dei problemi simili. È venuta fuori la sostanza umana di quel personaggio. Mickey Rourke aveva con sé un fratello che aveva il mal caduco, ogni tanto cadeva, e aveva degli amici che manteneva, che erano più poveri e li portava con sé. Quando si trattò di girare la scena delle stigmate, nel primo Francesco non me la sentivo, ho pensato perfino che fosse una leggenda, e forse lo è. Con Mickey ho detto: "Proviamo, se non sono credibili non utilizzo la sequenza". E quella scena di ha commosso: vedendo i giornalieri ho chiamato tutta la troupe, siamo rimasti così convinti che alla fine l'ho messa nel film. Certi film sono un viaggio che fai anche in te stesso. Il cinema mi piace per questo, è come la narrativa: è qualcosa che fai perché hai bisogno di parlare di te stesso.

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Quali sono i suoi artisti preferiti del cinema italiano?

Vittorio De Sica è il nostro cineasta più importante. Se mi chiedessero quale film salveresti al mondo, direi L'oro di Napoli. È il cinema nella sua massima espressione, se uno vuole studiare la storia degli umani. Ci sono due-tre film di De Sica che sono fondamentali. Il cinema è un'esperienza umana, come tutte le arti.