"Burned all my notebooks, what good are notebooks? / They won't help me survive / My chest is aching, burns like a furnace / The burning keeps me alive", recitava con serafica paranoia la voce di David Byrne nell'ultima strofa di Life During Wartime, celeberrimo brano dei Talking Heads, sull'onda di un incalzante ritmo funky. Una fiamma divorante, quella fiamma che "brucia come una fornace", arde anche nel petto di Chris Kyle, il cecchino degli US Navy Seal alla cui vicenda è dedicato il nuovo cimento di Clint Eastwood, American Sniper.
A ottantaquattro anni, e ad appena qualche mese di distanza dalla più lieta parentesi musicale di Jersey Boys, l'infaticabile regista de Gli spietati riprende le fila di un discorso, portato avanti all'incirca da un decennio, sul rapporto fra individuo, società e Storia e sulla violenza come caratteristica endemica al tessuto culturale americano. Un discorso ampio e problematico, di cui American Sniper costituisce non a caso il capitolo ad oggi più controverso.
L'occhio che uccide: American Sniper
Basato sull'omonimo libro autobiografico di Chris Kyle, adattato per il grande schermo da Jason Dean Hall, e proposto inizialmente a Steven Spielberg, prima che quest'ultimo cedesse il progetto al collega Eastwood, American Sniper ripercorre le tappe del servizio prestato in Iraq da Kyle, soprannominato "la Leggenda" per la sua letale abilità di cecchino, che lo avrebbe portato a totalizzare centosessanta vittime certificate. Nel film il protagonista, che ha il fisico massiccio e il volto via via più duro e segnato di un ottimo Bradley Cooper (qui in una delle sue prove più convincenti), si divide fra la vita familiare accanto alla moglie Taya (Sienna Miller) e i lunghi, logoranti turni in un Iraq dipinto più che mai come una no man's land: un paese ridotto ad un indiscriminato campo di battaglia, che Chris scruta attraverso lo sguardo artificiale di un mirino, alla perenne, forsennata ricerca di un pericolo da sventare, di un nemico da abbattere, mentre tutt'intorno i suoi commilitoni continuano a morire. Fin dalla primissima, raggelante sequenza, in cui Chris punta il proprio fucile su una madre ed un bambino, consapevole della necessità di dover premere il grilletto.
Kyle, trasformato (o condannato?) dal proprio talento in una macchina per uccidere e acclamato da tutto l'esercito come un autentico eroe (si veda la scena dell'incontro con il giovane soldato interpretato da Jonathan Groff), ci offre dunque l'unica, possibile focalizzazione su un'esperienza individuale legata alle nuove modalità della "guerra al terrorismo". Una guerra che Eastwood, per la prima volta alle prese con un conflitto militare dei nostri giorni, mette in scena non a caso secondo la prospettiva di Kyle, escludendo volutamente qualunque riferimento politico o contestualizzazione storica. L'unica concessione, in tal senso, è costituita dalle brevi immagini di un notiziario televisivo che mostra in diretta l'attentato alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001: un momento pivotale da cui non si può prescindere, ma al quale non fa seguito alcuna citazione del dibattito sulla presunta legittimità dei vari interventi armati degli USA, né tantomeno dichiarazioni o apparizioni in video di George W. Bush. Perché American Sniper, in realtà, non è un dramma storico (a differenza del dittico di Iwo Jima, o delle biografie di Invictus e J. Edgar), né una cronaca dell'attualità più stringente: la guerra, nel film, è vissuta unicamente mediante la percezione di Kyle, ovvero quella di un soldato che esegue il proprio dovere - perché così gli è stato insegnato, fin da bambino - senza lasciarsi sfiorare da perplessità o dubbi di sorta.
Il cinema di Clint Eastwood e la demolizione del "mito americano"
Ma proprio la dimensione individuale del conflitto iracheno e della vita in tempo di guerra ha fatto sì che American Sniper prestasse il fianco a quelle prevedibili accuse che il vecchio Clint, fieramente repubblicano, non ha mancato di attirarsi fin dal famigerato discorso della "sedia vuota"; benché non si possa certo dimenticare che nei propri film Eastwood sia stato - e continui ad essere - l'alfiere di una visione del presente e della Storia fortemente demitizzante. Basti pensare, in tal senso, alla lucida e disincantata negazione dell'American Dream operata nei capolavori Mystic River e Million Dollar Baby; alla denuncia dei lati oscuri di uno Stato che non esita a schiacciare le libertà del singolo (il calvario di Christine Collins in Changeling) o ad imporre una dolorosa auto-repressione ai suoi esponenti di maggior spicco (l'omosessualità negata in J. Edgar); e, naturalmente, alla demolizione impietosa della retorica nazionalista e del concetto stesso di "eroismo", eseguita prima in Flags of Our Fathers e subito dopo, sempre nel 2006, in Lettere da Iwo Jima, laddove il manicheismo di una rigida suddivisione fra "noi" e "loro" veniva fatto a pezzi in virtù della capacità di assumere il punto di vista del "nemico", sotto il segno di un umanismo che trascende gli schieramenti e le bandiere.
È anche alla luce della poetica espressa in una tale filmografia che una lettura di American Sniper come mera operazione apologetica e come esempio di sciovinismo appare drasticamente limitante e superficiale, laddove la pellicola di Eastwood rivela sfumature assai più complesse e degne d'attenzione. Perché se è vero che, di base, il regista di San Francisco mantiene un sincero rispetto verso la figura di Chris Kyle e l'onestà dei suoi sentimenti (non siamo, insomma, nei territori di Stanley Kubrick e del suo Full Metal Jacket), è altrettanto vero che l'adesione narrativa alla prospettiva di Kyle non implica necessariamente una sterile celebrazione del modello dell'American Hero, né tantomeno un'accettazione acritica di quel sistema di valori tipicamente texano che consiste nel trinomio "Dio, patria e famiglia". Un sistema di valori imposto a suon di cinghiate ad un figlio cresciuto nel mito dei cowboy e nella profonda convinzione che la violenza, talvolta, sia uno strumento auspicabile e necessario per diventare "cani da pastore" anziché pecore inermi; quello stesso impianto ideologico, insomma, rimarcato durante il corso di addestramento militare ricorrendo a motti altisonanti e ad uno squallido machismo (e lì davvero sembra di rivedere le sequenze iniziali di Full Metal Jacket).
"The burning keeps me alive"
In American Sniper, dunque, è difficile rintracciare un "film a tesi" (e tantomeno un pamphlet di politica estera); al contrario, Clint Eastwood adotta un ammirevole rigore nel ripercorrere la parabola umana di Chris Kyle, lasciando allo spettatore l'eventuale giudizio sul protagonista. Semmai, ciò che davvero interessa all'Eastwood cineasta è, ancora una volta, il confronto - impari - fra l'uomo e la Storia, declinato attraverso il calvario di Kyle, la sua interminabile odissea lungo gli orrori di una guerra senza fine, vissuta anno dopo anno in una sfibrante alternanza fra turni di servizio e parentesi casalinghe. E al di là di qualche eccesso di enfasi e di una sceneggiatura non sempre calibrata alla perfezione, il film di Eastwood riesce comunque a scolpirsi nella memoria e a dimostrare la sua potenza proprio quando scaraventa il Kyle di Bradley Cooper nell'abisso di atrocità al quale egli va incontro, in un processo di progressiva disumanizzazione di questo granitico (anti)eroe. Fino all'emblematica sequenza dello scontro nella tempesta di sabbia, quando l'essere umano - ciascun essere umano - sparisce letteralmente, inghiottito da una massa indistinta che annulla ogni sagoma ed ogni colore, lasciando che il caos regni sovrano.
È proprio in questa scena, e nello sguardo vitreo ed 'alieno' di Kyle ipnotizzato da un televisore spento, che risiede il senso più intimo ed inquietante di American Sniper. L'adrenalina del campo di battaglia, il faccia a faccia con la sofferenza e la morte, la paura e l'ebbrezza di sapere che la propria vita può essere appesa a un filo, non consentono un ritorno alla normalità. "Alcuni di loro è come se non fossero mai tornati", dichiara il giovane militare adorante a proposito dei veterani più sfortunati, e le sue parole assumono il valore di un angoscioso presagio sul futuro di Chris Kyle: perché anche lui, lo sappiamo bene, è destinato a tramutarsi in uno zombie, un uomo che porta la guerra dentro di sé, perfino fra le mura domestiche, come una fiamma che non smette mai di bruciare ("The burning keeps me alive", per tornare ai Talking Heads). Kyle sarà mai in grado di rientrare davvero nella vita civile? Parrebbe quasi di sì, a giudicare dalle ultime sequenze di serenità familiare; eppure Eastwood, con la sapienza di un grande maestro che rifiuta di appiattirsi su soluzioni rassicuranti, ci instilla ancora una volta il tarlo del dubbio. Come quando Kyle scherza allegramente con la moglie Taya, ma non può fare a meno di impugnare una pistola, oggetto dalla sinistra valenza (e ricordiamo tutti cosa diceva Anton Cechov a proposito delle pistole...).
L'ebbrezza della guerra: The Hurt Locker
Nell'ottica appena descritta, l'immediato termine di paragone, per American Sniper, non può che essere The Hurt Locker, l'opera con la quale, nel 2008, fu la regista Kathryn Bigelow a raccontare sul grande schermo la guerra in Iraq. Ricompensato con sei premi Oscar, tra cui miglior film, regia e sceneggiatura, all'edizione degli Academy Award dell'anno successivo, The Hurt Locker ci presenta uno scenario non molto distante da quello dell'opera di Eastwood, con il Sergente William James (impersonato da Jeremy Renner), caposquadra di un'unità di artificieri, a proporsi come veicolo di una narrazione che trasmette con vivido realismo la tensione e, appunto, l'ebbrezza di chi rischia ogni giorno di saltare in aria per il minimo errore. "Ma ti rendi conto che ogni volta che indossi quella tuta, ogni volta che usciamo, possiamo lasciarci la pelle? Lanci il dado e non sai come va... lo sai che è così, vero?", è la domanda pronunciata dal Sergente J.T. Sanborn (Anthony Mackie).
Ma ancor più significativo, in merito al prezzo pagato da ogni "aspirante eroe" della moderna guerra al terrorismo, è il monologo di William all'indirizzo del figlio neonato: "Quando diventerai grande, alcune delle cose che hai potrebbero non sembrare più così speciali. Come la tua scatola a sorpresa: magari ti rendi conto che è solo un pezzo di latta con un pupazzetto imbottito. E poi dimentichi le poche cose che ami davvero. E quando sarai arrivato alla mia età rimarranno solo una o due cose... per me, penso sia una sola". È la dannazione del soldato: il Sergente James di The Hurt Locker, il Maggiore Thomas Egan (Ethan Hawke), specialista della "guerra dei droni" in Good Kill di Andrew Niccol, proiettato in concorso al Festival di Venezia 2014, fino al Chris Kyle di American Sniper... antieroi di un cinema a stelle e strisce che, per la prima volta, sceglie di fare i conti con una guerra tuttora in corso, e con i suoi effetti a lungo termine sull'animo umano.
L'ossessione della sicurezza: Homeland
Ai protagonisti strenuamente 'virili' ed intimamente fragili del "cinema di guerra" dei nostri tempi, eredi diretti del Christopher Walken de Il cacciatore e del Martin Sheen di Apocalypse Now, il cinema e la TV hanno saputo accostare personaggi femminili per certi versi analoghi, ma la cui posizione ha assunto un'importanza ancora maggiore nel nostro immaginario collettivo. E in un'epoca in cui la televisione si sta ricavando sempre più spazio all'interno dell'intrattenimento popolare e del dibattito critico, non stupisce lo status iconico al quale può giustamente aspirare Carrie Mathison, l'agente della CIA interpretata con eccezionale pathos dall'attrice Claire Danes in una delle serie più premiate ed applaudite negli ultimi anni, Homeland. Se in American Sniper Kyle abbatte i propri bersagli con l'unico scopo di proteggere i suoi compatrioti (la ben nota metafora del cane da pastore e delle pecorelle), in Iraq come negli Stati Uniti, Carrie Mathison è un'agente che ha consacrato la propria esistenza alla homeland security, e che per la suddetta causa - la protezione dell'America dalla minaccia del terrorismo - arriva a mettere a repentaglio la sua stessa sanità mentale; e in tale prospettiva, il bipolarismo e i disturbi psichici di Carrie sintetizzano al massimo grado il concetto di "guerra" come ossessione ineludibile e vampirizzante.
Zero Dark Thirty: le lacrime di Maya
E di nuovo dalla TV al cinema, è stata ancora Kathryn Bigelow, tre anni dopo la pioggia di Oscar per il bellissimo The Hurt Locker, a scrivere un altro, fondamentale capitolo sulla rappresentazione cinematografica della guerra al terrorismo nell'era del post-11 settembre, data che (come in American Sniper) segna l'inesorabile linea di demarcazione fra un "prima" e un "dopo". Capolavoro di magistrale rigore - stilistico e morale - e di impeccabile asciuttezza, dramma bellico spogliato di ogni barlume di vestigia epiche, straziante metafora di un'America impegnata a reagire al trauma della propria vulnerabilità, anche Zero Dark Thirty, non a caso, è il racconto di un'ossessione: quella di Maya, agente della CIA votata alla ricerca del nemico numero uno degli Stati Uniti, lo "Sceicco del Terrore" Osama bin Laden. Ma con una non trascurabile differenza rispetto al protagonista di American Sniper: mentre Chris Kyle, con la sua muscolatura gonfia e la forma mentis da uomo d'azione, è l'espressione di una virilità esasperata, Maya al contrario - e in maniera squisitamente 'femminile' - è pura intelligenza. Se in Kyle a prendere il sopravvento è la pulsione istintuale ad agire (e ad uccidere), Maya conserva un gelido autocontrollo, alimentato da una razionalità anteposta sempre e comunque alla sfera degli impulsi e delle emozioni.
Non deve sorprendere, pertanto, la scelta inusuale - ma azzeccatissima - di non far comparire affatto la protagonista nella serrata macro-sequenza dell'eliminazione di bin Laden: Maya è la stratega, la "detective", non una combattente in senso stretto. E forse è proprio tale caratteristica, un'acuta consapevolezza di se stessa e della propria missione (quella consapevolezza che invece manca a Kyle, cecchino in Iraq per il medesimo senso del dovere di un cowboy nel Far West), a distinguere Maya dall'American Sniper, nonché a metterla al riparo dal rischio di perdere il proprio equilibrio psichico. Ma neppure questa consapevolezza, alla fine, potrà proteggerla dall'horror vacui che si impossesserà di lei nel momento in cui la sua missione sarà compiuta e il nemico sconfitto. Allora, in un epilogo di poderosa e spiazzante semplicità, la determinazione della donna cederà il posto alle lacrime: quelle lacrime silenziose che, scorrendo sul volto di una meravigliosa Jessica Chastain, suggellano come meglio non si potrebbe uno dei più straordinari film di guerra - e sulla guerra - mai realizzati.