"Tu mi hai fatto intravedere i primi lampi di vita vera e poi mi hai detto di continuare a viverne una falsa. Nessuno può resistere a tanto." "Io sto resistendo."
È un secolo esatto a separare la New York rappresentata da Martin Scorsese in Quei bravi ragazzi da quella che funge da cornice a L'età dell'innocenza: due mondi che, almeno apparentemente, non potrebbero essere più lontani. Nel suo capolavoro del 1990, Scorsese narrava la scalata del gregario mafioso Henry Hill all'interno della criminalità organizzata newyorkese e del clan dei Gambino nel corso degli anni Settanta. Nel 1993, invece, il regista ci trasportava fra i lussuosi salotti e gli altri luoghi di ritrovo della borghesia newyorkese degli anni Settanta dell'Ottocento nella sua trasposizione de L'età dell'innocenza, classico della letteratura pubblicato da Edith Wharton nel 1920: il rarissimo caso, nella filmografia scorsesiana, di un'incursione nei territori del melodramma in costume, nonché uno dei progetti più affascinanti della sua carriera.
Se il sottobosco criminale di Quei bravi ragazzi era una "giungla d'asfalto" governata dalle leggi della brutalità e della sopraffazione, secondo quanto stabilito da una rigida gerarchia mafiosa, è una violenza sotterranea a scorrere al di sotto della patina di gentilezza e di eleganza esibita ne L'età dell'innocenza dagli esponenti dell'alta società di New York: un sontuoso microcosmo a cui siamo introdotti attraverso un teatro dell'opera, durante un allestimento del Faust di Charles Gounod, e mediante la prospettiva del giovane avvocato Newland Archer, interpretato da Daniel Day-Lewis. Scritto da Martin Scorsese insieme a Jay Cocks (che tornerà a collaborare con lui per Gangs of New York e Silence), L'età dell'innocenza esordisce nelle sale americane il 17 settembre 1993, pochi giorni dopo essere stato proiettato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, e con il tempo si attesterà tra i film più acclamati del regista italoamericano.
Un amore impossibile nella gabbia dorata di New York
Alla rutilante frenesia di Quei bravi ragazzi, ma pure del successivo Casinò, fa qui riscontro una compostezza elevata a modus vivendi di una classe sociale strettamente vincolata a una precisa serie di rituali: l'esistenza di Archer e dei suoi pari si dipana con ciclicità inflessibile fra balli, ricevimenti, visite di cortesia e serate mondane, in una girandola di volti sempre uguali e sotto gli occhi penetranti - e l'intuito infallibile - di Mrs. Mingott, la ricca matriarca impersonata con vivacità da Miriam Margolyes. È in tale contesto che all'improvviso si materializza un elemento 'estraneo', e destinato pertanto ad essere tenuto ai margini: la nipote di Mrs. Mingott, Ellen Olenska, appena tornata dall'Europa e gravata da un'ambigua reputazione a causa del suo matrimonio con un dissoluto nobile polacco. Una figura a cui una splendida Michelle Pfeiffer conferisce una grazia radiosa, a cui Archer non riuscirà a rimanere indifferente.
Martin Scorsese: quel bravo ragazzo che è ancora il più bravo di tutti
Sulle interazioni fra Archer e la Contessa Olenska, commentate da una voce narrante (in originale quella di Joanne Woodward) che rievoca la matrice letteraria della vicenda, Martin Scorsese innesta dunque la struttura drammaturgica del film: non solo la storia di un canonico amore 'proibito', ma l'immersione nell'universo emotivo di due persone ingabbiate in una realtà dai contorni spietati. È la realtà messa in scena nell'opulenza delle scenografie di Dante Ferretti, dominate dall'horror vacui delle decorazioni e degli arredi, e nei magnifici costumi di Gabriella Pescucci, ricompensati con l'Oscar; la realtà dipinta dalla fotografia di Michael Ballhaus, altro fedelissimo sodale di Scorsese (ma prima ancora storico direttore della fotografia per Rainer Werner Fassbinder), in cui si accendono repentini lampi di luce a squarciare la penombra degli interni o ad avvolgere la Contessa Olenska nei bagliori dorati di un tramonto sul mare.
L'anelito di libertà e la fine dell'innocenza
L'intero apparato visivo risulta indispensabile a illustrare l'agone in cui il sentimento clandestino fra i due protagonisti - Archer è fidanzato con l'ereditiera May Welland (Winona Ryder), mentre la Contessa Olenska non ha ancora deciso se chiedere il divorzio - si scontra con le convenzioni sociali e la morale puritana dell'ambiente a cui appartengono. "Non c'è nessuno qui che vuol conoscere la verità, signor Archer?", domanda Olenska, insofferente ai codici di comportamento che le sono imposti; "La vera solitudine è vivere tra queste persone gentili che ti chiedono soltanto di fingere". L'anelito di libertà, e la possibilità di essere davvero se stessi, in antitesi a un inviolabile sistema di potere o a una sorte già stabilita: è uno dei temi-chiave delle opere di Martin Scorsese, rintracciabile perfino nel suo "vangelo apocrifo" L'ultima tentazione di Cristo e qui declinato in un mélo che si accende in maniera repentina, nelle fessure di un racconto intriso di un senso di oppressione e di prigionia.
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Dagli iniziali, silenziosi palpiti fra Newland Archer ed Ellen Olenska, espressi, prima ancora che con le parole, tramite gli sguardi luminosi di Daniel Day-Lewis e Michelle Pfeiffer, per approdare a un epilogo di struggente malinconia, collocato emblematicamente a distanza di venticinque anni (ovvero al passaggio fra i due secoli), L'età dell'innocenza può essere annoverato a pieno diritto tra i grandi film d'amore del cinema contemporaneo. Ma si tratta al contempo di un grande film sul conflitto fra individuo e società e sulla dicotomia fra desiderio e sacrificio, fra la volontà di autodeterminazione e il concetto di colpa indotto dalla morale comune. In tale ottica risiede la modernità 'scandalosa' della Contessa Olenska: una promessa di felicità a cui il protagonista proverà a tendere la mano, ma senza il coraggio di aggrapparvisi fino in fondo e di non lasciar andare la presa.