Simbolo di fierezza, orgoglio collettivo, icona di un popolo intero. L'indomita Marianne impugna la bandiera della Francia e una baionetta, immersa nel bel mezzo di una folla in tumulto. Se apriamo questa recensione de I miserabili (presentato a Cannes nel 2019) citando il celeberrimo dipinto La Libertà che guida il popolo, lo facciamo per almeno due motivi assai legati tra loro. Il primo è che l'opera di di Eugène Delacroix ispirò Victor Hugo durante la stesura del suo grandioso dramma popolare I Miserabili, nel quale rivide lo stesso desiderio di riscatto dei suoi personaggi costretti a una vita balorda.
Il secondo è l'elegante citazione che apre l'opera prima del regista Ladj Ly. Il suo Les Misérables si apre con la stessa bandiera sventolata tra la folla, mostrata con vanto in mezzo all'ardore della gente. Questa volta, però, non c'è una battaglia sociale da vincere, ma solo la finale dei mondiali di calcio vissuta attraverso gli occhi di un piccolo tifoso. I nuovi idoli di massa si chiamano Mbappè, il nemico (almeno per novanta minuti) è la Croazia. Però, se la nazionale è una perfetta immagine di una Francia melting pot, nei sobborghi di Parigi le cose non finiscono in gloria. La periferia parigina è un campo minato di intolleranza, una bomba a orologeria pronta a esplodere.
E allora riecco la disperazione di Victor Hugo, l'impeto di Delacroix e violenza di un'opera prima cruda, potente, urgente. Primo film francese presentato, in concorso, al Festival di Cannes 2019, Les Misérables è un poliziesco che abbraccia il dramma sociale, un film duro e feroce, che assomiglia tanto a un piano inclinato diretto verso l'ingresso di un inferno urbano.
Parigi brucia: una trama-ragnatela
Niente moderni Jean Valjean, Javet e Cosette tra le vie grigie dell'odierna Parigi. Nonostante un titolo eclatante e assai evocativo, Ly non si è avventurato in un remake contemporaneo dell'opera di Hugo. Lontano da qualsiasi parallelismo didascalico e forzato con il romanzo ottocentesco, il regista parigino richiama i temi portanti della lotta sociale, delle strade che diventano campi di guerriglia, della città dipinta con disincanto e terrore. Ispirato all'omonimo cortometraggio del 2017 diretto dallo stesso Ly, I miserabili segue i primi giorni dell'agente Stephane all'interno di un corpo di polizia dai metodi poco ortodossi. In maniera simile a Training Day, Ly adotta il punto di vista di un nuovo arrivato costretto a sporcarsi le mani (e gli occhi) con le gesta balorde di uomini di legge disumani, incapaci di fare da paciere nel bel mezzo di un quartiere già segnato da tensioni e divergenze etniche.
La situazione precipita quando il recupero di un cucciolo di leone rubato a un circo sfocia in un insensato atto di violenza nei confronti di un ragazzino. Il tutto ripreso da un drone che contiene una prova scomoda, una prova che va recuperata a qualsiasi costo. Sembra un pretesto narrativo, perché è di questo che si vive in questa Parigi periferica e squallida: di pretesti. Pretesti per scontrarsi, odiarsi, alimentare intolleranza e prevaricazioni dei forti sui deboli. Con il calcio a fungere da illusorio palliativo, da illusione di una convivenza fattibile. In una città privata del suo solito fascino romantico, I miserabili si aggira impietoso tra palazzi popolari, strade anonime e negozietti sudici. Ly fa parlare il contesto, rende il quartiere un personaggio determinante per le esistenze di un gruppo di ragazzi recluso dentro una gabbia nel quale non esistono empatia, dialogo e perdono.
Un inferno a forma d'imbuto
Lo abbiamo definito un piano inclinato, ma I miserabili si riconosce anche nella struttura di una scala a chiocciola. È questa la forma narrativa di un film che parte con toni ironici e innocui, gira in tondo per la prima ora e poi scende pian piano nel cuore del suo dramma urbano. E lo fa in modo inesorabile e spietato. A metà strada tra il poliziesco e il dramma, il convincente esordio di Ly ci ha ricordato a tratti L'odio di Mathieu Kassovitz. Senza arrivare a quelle vette di brutalità, anche questi miserabili esseri umani sono simili a micce pronte ad accendersi, diretti nei bassifondi di una città di cui bisogna mostrare anche il volto peggiore. Allergico alla Parigi scintillante e patinata che il cinema ama tanto celebrare, Ly preferisce stare addosso ai personaggi, seguirli lungo corse, scazzottate e sparatorie. Attraverso una regia dinamica e abile nel restituirci l'affanno dei protagonisti e la claustrofobia delle scene più concitate, Ladj Ly tira fuori da ogni attore una naturalezza spontanea e coerente con il crudo realismo che avvolge tutta la storia. Però, quello che eleva Les Misérables da un classico affresco metropolitano di denuncia, è un epilogo assolutamente asfissiante e selvaggio. Un inarrestabile climax di violenza che racconta meglio di qualsiasi parola tutto il vuoto relazionale delle periferie. Se per Delacroix si lottava per la libertà, nel 2019 ci sono parigini che lottano per rimanere nelle loro prigioni.
Conclusioni
Come avrete capito dalla nostra recensione de Les Misérables, questo esordio alla regia di Ladj Ly ci ha convinto. Citando con eleganza il grande romanzo di Victor Hugo, di cui rimane intatta la stessa denuncia sociale, l'opera prima in concorso a Cannes 2019 è uno ritratto spietato delle periferie parigine. Un poliziesco teso che si mescola col dramma, un film che parte con toni ironici per poi affondare il colpo nella violenza dei quartieri più degradati di una città totalmente spogliata del suo solito fascino romantico.
Perché ci piace
- I richiami raffinati all'opera di Victor Hugo.
- La recitazione spontanea che si sposa con il crudo realismo del racconto.
- L'epilogo: uno spietato concentrato di violenza che diventa emblematico.
Cosa non va
- Il tema è stato già affrontato tante volte altrove , per cui l'originalità non è certo il maggior pregio del film.