Le macerie dell'Islam
Alle cinque della sera, con questi versi celebri inizia il film della giovanissima regista iraniana Samirah Makhmalbaf, che si ispira alla nota poesia di Garcia Lorca, per intraprendere un viaggio nella Kabul di oggi, distrutta e martoriata dopo i bombardamenti americani.
Interessante l'idea di paragonare una poesia di un poeta spagnolo che parla della morte di un torero, con un film che parla invece della situazione tragica dell'Afghanistan.
In realtà la prima immagine che vedremo non è altro che il finale del film, immagine che infatti ritornerà nelle ultime inquadrature, per chiudere questo cerchio aperto con una poesia che in qualche modo esprime, anche se in modo diverso, lo stesso concetto di morte e annientamento.
Quella che vediamo potrebbe essere una città di tre secoli fa, se non fosse per i personaggi che si riferiscono ad avvenimenti attuali, come il regime talebano o i bombardamenti americani.
Si tratta di un film-documento di denuncia, estremamente coerente e rigoroso anche nelle scelte stilistiche, che mostra (per la prima volta) i resti di un popolo ridotto a vagare senza meta per le macerie di un paese raso letteralmente al suolo, cancellato.
Chiaramente la nostra Samira cerca anche di conoscere da vicino le persone che in questo momento vivono in Afghanistan, specialmente dal punto di vista del conflitto generazionale: gli anziani filotalebani fedeli alla tradizione religiosa, che ancora non riconoscono la donna come una persona libera e la vogliono costretta a girare per strada con il viso coperto, e le nuove generazioni più aperte al cambiamento, soprattutto riguardo la condizione della donna.
La protagonista del film ad esempio, Nokreh (interpretata da un'attrice non professionista), è costretta ad andare di nascosto dal padre a scuola, si mette le scarpe con i tacchi solo una volta lontana da quest'ultimo e addirittura spera un giorno di poter diventare la presidentessa dell' Afganistan, a dimostrazione di come i tempi siano cambiati.
Uno sguardo dunque su ciò che hanno lasciato prima il dominio russo, poi quello talebano e infine l'occupazione militare americana, ma anche un'attenzione particolare per queste donne coraggiose che ancora timidamente intendono affermare i propri diritti. Il tutto in una città dove non esiste una vera casa, in cui tutti sono costretti a vagare di rudere in rudere, e dove arrivano profughi dai paesi limitrofi (altrettanto disperati) come il Pakistan, in una confusione e panico generale.
Vediamo donne affamate non più in grado di allattare i propri figli, gente costretta a vagare per ore per riempire una borraccia d'acqua, situazioni per noi inimmaginabili, che la regista con coraggio ha deciso di mostrare con delle immagini costruite in modo essenziale, rigoroso e proprio per questo esteticamente molto interessanti. Capiamo come ogni immagine sia stata studiata a fondo, per che possa avere quel forte senso di denuncia assieme ad un valore simbolico ed estetico.La stessa regista del film racconta nelle interviste, di come sia stato difficile girare il film, perché le persone riprese erano le stesse costrette a quelle condizioni di vita e la cinepresa era una assoluta novità per loro. La protagonista ad esempio è una donna di soli ventitrè anni, sposata con un marito ancora dato per disperso e con due figli, che insegna in una delle scuole improvvisate, per riuscire almeno a sfamare i propri figli; questo ci fa capire come sia stato difficile convincerla a impersonare qualcuno che in realtà aveva la sua stessa vita.
Nonostante queste difficoltà oggettive e l'eccessiva giovinezza (ma non immaturità), Samirah Makhmalbaf é riuscita ad ottenere un film che farà riflettere molto noi occidentali e che soprattutto dimostra ancora una volta come il linguaggio cinematografico ridotto all'essenziale, sia molto più profondo e poetico di tanto cinema "facile" e vuoto, spesso prodotto con mezzi sofisticatissimi e grande investimento economico.