La filosofia resta l'unico punto fermo per lei, mentre cerca di reinventarsi, provando a gestire questa improvvisa libertà verso un futuro nuovo ed imprevedibile. La giovane regista Mia Hansen-Løve, che ha vinto l'Orso d'Argento alla Berlinale 2016 per questo film, già aveva conquistato la critica con Eden nel 2014 e con Il padre dei miei figli nel 2009, vincitore del premio speciale della giuria nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes. A Roma come ospite della settima edizione del Rende-vous festival, Mia Hansen-Løve ha incontrato la stampa italiana e noi di Movieplayer abbiamo avuto il piacere di analizzare con lei questa sua avventura intima al femminile tra pensiero filosofico, incertezza e libertà.
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Isabelle Huppert è una donna che deve reinventarsi
Come è stato il passaggio dai film precedenti capaci di raccontare lo spirito della giovinezza, ad un film con una protagonista più adulta?
Penso che l'argomento di Le cose che verranno lo avevo in mente già da tempo, ma mi faceva un po' paura perché è un argomento più duro di quelli che avevo affrontato fino a quel momento. Per una donna di 50-55 anni reagire a quanto accade e reinventarsi una vita è sicuramente più difficile rispetto ad un giovane di 20 anni. In realtà questo film l'ho scritto all'ombra di Eden, che era stato difficile da produrre e finanziare. Ho avuto quindi meno paura, perché invece di affrontarlo così dal nulla, ci ho lavorato mentre giravo Eden ed è stato più naturale.
Quando stava scrivendo il film ha pensato subito ad Isabelle Huppert come protagonista?
Sì, da subito, e credo che il fatto di avere già lei in testa per il personaggio mi abbia dato l'energia giusta per scriverlo. Sapevo che era un'attrice dotata di grande carisma, ma anche che sarebbe stata in grado di rendere la giusta dose di humour ed ironia, due aspetti molto importanti nel film, come la filosofia. Sapevo che lei era l'unica attrice con questa capacità di esprimere una tale ambivalenza: crudeltà e leggerezza nello stesso momento. Questa è stata la prima volta che ho avuto un'attrice in testa ancora prima di iniziare a scrivere.
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Nei film ci sono diversi riferimenti filosofici. Gli autori menzionati fanno parte della sua cultura precedente o no? Come li ha scelti?
Non ho avuto bisogno di andare a cercare dei riferimenti filosofici perché volevo scrivere un film sulla filosofia. Sono degli autori che mi hanno accompagnata anche se non posso dire di avere dei rapporti intimi con loro. Hanno solo fatto parte del mondo in cui sono cresciuta. Ho letto Anders e altri di loro perché ho studiato la filosofia tedesca all'università, ma in un certo senso sono loro che si sono imposti nelle varie scene del film.
La natura mi fa identificare con la protagonista
La natura è molto presente in questo film: con il divorzio la prima preoccupazione di Nathalie sembra essere la casa al mare, Fabien si trasferisce in campagna, e molte delle lezioni di filosofia si svolgono su un prato. Pensa che la natura sia un'alleata della protagonista che può aiutarla ad affrontare i cambiamenti che stanno avvenendo nella sua vita?
Assolutamente sì, la natura sostituisce forse quello che in una sceneggiatura più classica sarebbe stato un nuovo amore per Nathalie, l'incontro con un nuovo uomo che qui invece non accade per lei. La natura rappresenta la luce, lo spazio, la libertà, l'estate che si ripropone ogni anno e sono sempre stata sorpresa da come mia madre sapeva apprezzare le cose semplici della natura come qualcosa che nutre, che dà conforto, che in fondo è l'amore per la vita, molto diversa da quello che può essere il legame o un nuovo incontro con un uomo. E forse è proprio la natura la cosa che condivido con il personaggio di Nathalie. In tutti i miei film, salvo in Eden, c'è sempre un rapporto con la natura, la luce e l'orizzonte. Quindi è un legame molto profondo che mi unisce alla protagonista del mio film.
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Come ha scelto la musica per Le cose che verranno?
Non c'è una musica originale, ci sono quattro brani in tutto nel film, tra cui uno di Schubert e uno di Donovan. Nei primi 45 minuti del film, tuttavia, la musica non si sente mai, ma in generale non metto molta musica nei miei film, a parte in Eden che era un film sulla musica. Ho un rapporto quasi sacro con essa, e spesso mi disturba che in alcuni film si aggiunga della musica per sopperire ad una mancanza, per suscitare nello spettatore dei sentimenti. Avrei difficoltà a rivolgermi ad un compositore per lavorare in questo modo e la musica nei miei film è presente sempre per un motivo. Nasce dall'interno ed è organicamente legata al film. I pochi pezzi che metto li trovo sempre durante la lavorazione, e non li vado mai a cercare a posteriori. Contribuiscono all'identità del mio film e mi accompagnano durante le riprese come se riuscissi ad instaurare un dialogo con essi.
In Eden la protagonista è in costante bilico tra malinconia ed entusiasmo e anche in questo film sembra così per Nathalie. Come convivono questi due elementi in entrambi i film?
Convivono in lei come convivono in me, questa lotta tra malinconia ed entusiasmo penso che sia qualcosa che mi definisce. Per la prima volta avevo avuto l'impressione di presentare un personaggio che non fosse malinconico, invece viene fuori comunque questa malinconia. Trovavo il personaggio di Isabelle Huppert combattivo, con i piedi per terra, e non mi sembrava che fosse malinconico, ma probabilmente mi è venuto fuori così. Tuttavia questo è un film che mi ha dato tanto perché trovo che, in fondo, ci sia sempre un legame tra la nostra vita e i film che facciamo e questo mi è particolarmente piaciuto perché mi ha tirato verso la vita e gli sono riconoscente di questo effetto su di me. Ho trovato sorprendente che quando ho cominciato a scriverlo lo pensavo come il più pesante tra quelli che ho fatto, e invece, retrospettivamente, lo sento come un film luminoso e leggero.
L'abbandono come crescita
Qui l'abbandono è visto come rinascita e libertà dalla protagonista?
Sembrerebbe un film senza via d'uscita in un primo momento, ma poi c'è la liberazione. Un film che è stato di grande insegnamento per me, ma che ho vissuto in modo inconsapevole senza rendermi conto. Questa donna, perdendo tutto, trova qualcosa all'interno di se stessa; non parliamo di felicità assoluta perché qualcosa le manca, ma trova qualcosa e sa apprezzarla. Mi ha aiutato anche nella mia vita personale. Penso che ci siano uomini che vivono situazioni simili, non voglio generalizzare. Però per esperienza personale, ho conosciuto più donne che hanno dovuto cavarsela da sole. Gli uomini in fondo se vengono lasciati, nel giro di poco tempo trovano qualcun altro.
Come si svolge di solito il suo processo di scrittura?
Ho avuto sempre la fede un po' cieca ed ingenua che sia possibile partire da qualcosa di personale per arrivare a qualcosa di universale, ma certi autori di cinema pensano il contrario. Io non critico chi fa questo ma procedo in modo inverso, cerco di immergermi in un mondo preciso e personale per andare oltre ed arrivare all'universalità.
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Il tocco di Rohmer
Molti critici francesi la considerano un erede di Eric Rohmer. Si sente in sintonia con questa considerazione?
Adoro il cinema di Rohmer e mi ha segnata, mia madre mi ha fatto scoprire i film di Rohmer mentre mio padre era molto irritato dai personaggi femminili dei suoi film. Il raggio verde è il suo film che preferisco in assoluto. In Rohmer c'è questa apparente semplicità che, in realtà, nasconde una grande raffinatezza, io sono una sua grande ammiratrice ma non ci tengo ad imitarlo. Cerco il mio stile e la mia lingua.