Il racconto di come un gruppo di persone, apparentemente felici, siano devastate da un lutto inaccettabile. La crisi successiva, che ognuno di loro vive in maniera differente. L'apertura alla speranza e alla nascita di una nuova vita, grazie anche agli inattesi e salvifici incontri che si fanno per la strada. Questo è Le cose che restano, miniserie tv in quattro parti diretta da Gianluca Maria Tavarelli, che Rai Uno trasmetterà in prima serata dal prossimo lunedì 13 dicembre. La storia, scritta da Sandro Petraglia e Stefano Rulli, ruota attorno alle vicende della famiglia Giordani. Il padre, Pietro (Ennio Fantastichini) è un ingegnere, la madre, Anita (Daniela Giordano), ex medico ormai dedita al lavoro di mamma. E poi ci sono i figli, Andrea (Claudio Santamaria), impiegato del ministero degli Esteri, la psicologa Nora (Paola Cortellesi) e gli studenti Nino (Lorenzo Balducci), laureando in architettura e Lorenzo (Alessandro Sperduti), liceale alle prese con il primo amore. E' proprio la morte di quest'ultimo a mettere in crisi le certezze di tutti, fino ad allora ritenute incrollabili; davanti al volontario esilio dei due genitori (Anita impazzisce e viene ricoverata in una casa di cura e Pietro accetta un lavoro in Iraq), i figli mettono in gioco la loro esistenza attraverso nuovi ed insperati rapporti sentimentali. Andrea si innamora di Michel (Thierry Neuvic, nel cast di Hereafter di Clint Eastwood) e per lui rinuncia agli egoismi di una vita senza legami; attratta da un paziente che ha perso la memoria in guerra (il bravissimo Enrico Roccaforte), Nora guarda in faccia la triste routine del suo matrimonio, mentre Nino vede pian piano sfumare la rabbia che prova nei confronti del padre fedifrago, grazie alla difficile storia d'amore con Francesca (Antonia Liskova), moglie del suo professore e alla salda amicizia con Valentina (Valentina D'Agostino). A vigilare su questo nucleo familiare allo sbando c'è la materna figura di Shaba (Farida Rahouadj), una profuga salvata da Nino, che con amore e pazienza riunisce tutti sotto lo stesso tetto, realizzando il sogno di ritrovare la figlia Alina (Leila Bekhti), fuggita dal suo paese per tentare fortuna in Europa e finita a fare la prostituta in un locale notturno. Anche per la ragazza si prospetta una nuova vita, accanto a Cataldo (Francesco Scianna), il poliziotto che l'ha aiutata ad uscire dal losco giro d'affari in cui era finita.
Gianluca, il film è la parte finale di un trittico televisivo iniziato con La vita che verrà di Pasquale Pozzessere e La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana. Ti dà fastidio che Le cose che restano sia presentato come l'ideale seguito dell'opera di Giordana?
Gianluca Maria Tavarelli: Non mi dà assolutamente fastidio, anzi. Primo perché ho amato La meglio gioventù, un film che reputo straordinario e poi perché stiamo parlando di due prodotti completamente diversi, non c'è stato da parte di nessuno il tentativo di legarsi in qualche modo all'opera di Giordana.
Ti sono tremate le gambe quando ti hanno proposto il lavoro?
Gianluca Maria Tavarelli: Diciamo che ho accettato già sulla fiducia. Mi faceva piacere lavorare con Sandro e Stefano, con cui ci conosciamo da vent'anni. Quando ho letto le sceneggiature, poi, mi hanno subito colpito molto. E' proprio il tipo di storie che mi piace leggere e fare. Amo molto i racconti corali, che si sviluppano in archi narrativi ampi, in cui il tempo si vede e si sente, in cui i personaggi cambiano vite e pensieri a seconda dello scorrere degli anni. In fondo il film di questo parla, di come il tempo ti aiuta a metabolizzare il dolore, a cambiare lo sguardo sulle cose, a trovare una ragione quando ti sembrava che non ci fosse più. Tutti questi elementi si univano ad una grande quantità di svolte narrative bellissime. Io sono un regista emotivo e questa caratteristica si sposa bene con il lavoro di Sandro e Stefano così pieni di colpi di scena, di svolte. Non ho paura di raccontare emozioni forti, quindi mi sembrava un romanzo popolare nel senso più alto del termine.
Stefano Rulli: Spesso il presente tende a schiacciarti con la cronaca. Non abbiamo messo battute su Berlusconi perché volevamo sottrarre questo presente alla cronaca e cercare dei fili più profondi, che vedi meglio quando ti rivolgi al passato. Tra questi 'fili' metto quello della crisi di identità della famiglia. In fondo noi raccontiamo la storia di una casa che si svuota, di due figure genitoriali che non ti danno risposte ma, per motivi diversi, si sottraggono a quel ruolo; uno per la sofferenza e la follia, l'altro per un dolore che lo porta ad andare in un altro paese. Questi tre giovani si ritrovano a dover trovare la propria strada, il proprio senso. L'oggi per noi è stata una sfida grossa, perché questi personaggi non hanno una meta, vivono e alla giornata. E questo 'vivere alla giornata' per noi scrittori è difficile da raccontare, perché c'è il rischio che il pubblico si annoi. Abbiamo risolto l'inghippo lavorando sui sentimenti, che è ciò che si modifica profondamente. Volevamo interrogarci su questo mistero che tende a far saltare i vecchi schemi, facendoli ritrovare in altro modo.
Sandro Petraglia: Anche questo paese sta vivendo un suo lutto. Il paese sbanda, non capisce bene da dove deve ricominciare. Alla fine ricomincerà. Ad un certo punto ci siamo proprio chiesti cosa fosse questo lutto di cui parlavamo nella sceneggiatura. Era il simbolo di qualcosa che si è perduto negli anni.
Gianluca, è stato difficile orchestrare un cast così ricco?
Gianluca Maria Tavarelli: Io non sono uno di quei registi che fa le prove, non credo ad esempio che bisogna trascorrere una settimana tutti insieme, prima di girare, così ci si conosce meglio. L'importante è che l'attore capisca l'anima di quel personaggio, quei due o tre dati fondamentali che magari ritrova nella sua stessa vita. Capito quello, è difficile che sbagli. Poi con una sceneggiatura così bella, non c'era bisogno che io stessi troppo addosso agli attori. Ecco perché il film alla fine è riuscito, perché gli attori sono stati tutti credibili, veri, sono andati a pescare delle cose loro che poi hanno messo in scena con grande generosità. Questo arriva in maniera molto forte. Ecco, in questo credo.
Claudio, qual è stata la sfida che hai affrontato nell'interpretare il ruolo di Andrea?
Claudio Santamaria: La sfida era racchiusa nella storia del personaggio, in ciò che raccontava attraverso di sé. A me a Gianluca interessava presentare la storia di un amore come tanti, non importa se tra due uomini. Da subito avevamo deciso di non sottolineare alcun atteggiamento omosessuale. Pensa che bello che sarebbe se chi guarda il film possa identificarsi con Andrea e solo alla fine capire che è gay. Mi sono ispirato, in tal senso, a Tabù - Gohatto di Nagisa Oshima.
Daniela, tu interpreti Anita, la madre annientata dal dolore di aver perso un figlio. E' vero che avevi rifiutato?
Daniela Giordano: Sì, certo, non volevo proprio affrontare una cosa del genere, ma sono grata a Tavarelli di aver insistito fino alla morte. Se non avessi accettato mi sarei persa una bella occasione. Anita non è matta, ha una concezione della realtà che non è coerente, ma il fatto che lei sia imprigionata in un eterno presente, rappresenta in pieno uno degli snodi del racconto, quello relativo alla memoria. Se non fai i conti con il passato, con gli altri, quelli che vengono da un paese lontano come Shaba, sei condannato a un eterno presente. Quello che resta alla fine sono i rapporti umani che riesci a costruirti in base a delle scelte libere.
Lorenzo Balducci: Nino mi assomiglia per il 50%, molti atteggiamenti suoi li rivedo in me e non è stato difficile riportarli sullo schermo. Non è certamente il ritratto della mia generazione, ma il suo bisogno fisico di staccarsi dalla famiglia è una cosa comune a tanti ragazzi. Il suo tipo di percorso è necessario a prescindere dalla morte del fratello, che poi accelera in maniera drammatica il corso degli eventi.
Davanti ad un prodotto come il vostro, non ci si può fare a meno di chiedere perché sia così difficile, oggi, fare televisione di qualità. E' un problema di pubblico o è un problema sostanzialmente culturale?
Sandro Petraglia: Un'azienda così grande come la Rai dovrebbe avere quasi per statuto l'alternanza di prodotti più popolari a quelli che cercano invece una profondità maggiore, che cercano un pubblico diverso. L'esempio che mi viene in mente è Vieni via con me di Roberto Saviano e Fabio Fazio, un programma di qualità che ha dimostrato che si possono fare grandissimi ascolti. E' giusto che si facciano prodotti differenziati, anche se mi rendo conto che è più difficile farli in una tv generalista, dove c'è sempre la possibilità di scontrarsi con corazzate dall'altra parte. Noi crediamo che ci sia spazio per tutti, un po' come nel cinema. Più film facciamo, più cose migliori facciamo. Anche lo spettacolo popolare ha la sua dignità e anche quelle cose possono essere fatte sempre meglio.
Daniela Giordano: In questo momento siamo una nazione dalla grande cultura televisiva. E' una cosa che dobbiamo accettare. E allora perché non sfruttare questo elemento, impegnadoci per fare una tv nuova, migliore? Facciamo una bella televisione, dico io. Così ci sarà tanto lavoro in più per tutti. Lo abbiamo visto proprio con Vieni via con me; se c'è un prodotto di qualità, il 31% di share lo fa anche Rai 3.
Quindi, state dicendo che si tratta solo di un discorso di qualità?
Claudio Santamaria: Sì, certo. Fino ad oggi ho avuto la possibilità di fare fiction importanti, quella su Rino Gaetano, un personaggio assolutamente anti televisivo e Le cose che restano. Anche in questo caso parliamo di un prodotto completamente diverso dalla media, perché squarcia il velo di finzione che in genere le fiction stendono.
Lorenzo Balducci: Anche io alla fine delle riprese ho sentito la fortuna di far parte di un gruppo come questo, mi hanno decisamente viziato. Quando mi dicono che Le cose che restano è sprecato per la tv, mi arrabbio perché penso che un prodotto del genere debba essere la norma.