Recensione Akira (1988)

A tanti anni dalla sua uscita originale, il film di Katsuhiro Otomo non cessa di affascinare: science fiction matura, suggestioni filosofiche e un livello tecnico che fa invidia a molte produzioni moderne, per quello che è un vero classico dell'animazione.

Le 'anime' orientali di un film

Quello di cui ci accingiamo a parlare è un film che, a quindici anni dalla sua uscita, viene considerato già uno dei classici indiscussi dell'animazione nipponica. Il credito di cui gode Akira presso gli appassionati del genere (e non solo) è infatti enorme: una popolarità acquisita e cresciuta di anno in anno (malgrado una distribuzione penalizzante in diversi paesi occidentali: da noi ad esempio arrivò tre anni dopo la sua uscita in Giappone), e a dispetto degli inevitabili limiti di una sceneggiatura che ha dovuto condensare in un film di due ore un monumentale manga scritto e disegnato dallo stesso regista Katsuhiro Otomo. Le cause della grande popolarità di questo film presso il pubblico di tutto il mondo sono da ricercare innanzitutto nella sua indiscussa, altissima qualità tecnica: la cura con cui sono stati realizzati i disegni e le animazioni è davvero sbalorditiva, tenendo conto anche del fatto che stiamo parlando di un film realizzato ben quindici anni fa. Per moltissimi spettatori, abituati ad identificare l'animazione curata, di qualità, con i prodotti americani (Disney in primis) fu un vero e proprio shock vedere i personaggi di Otomo muoversi in modo completamente realistico in una città ricostruita con una cura maniacale, nei minimi particolari, e del tutto credibile. L'animazione giapponese usciva dal ghetto, quindi, e dalla semplicistica identificazione con le serie televisive che fecero la sua fortuna, nel nostro paese, negli anni '80.

Questo film vive e si nutre di componenti e umori molto diversi, tutti fondamentali per il risultato finale: c'è la componente cyberpunk, da sempre presente nel genere, con il dolore della mutazione del corpo e della sua fusione con il metallo; c'è l'aspetto politico, con il potere dei militari, le macchinazioni governative e le continue tensioni sociali che si respirano in città; c'è l'orrore, sempre presente, per il nucleare, ben riassunto nella sequenza iniziale dell'esplosione che distrugge la città; c'è una componente più strettamente filosofica, che si interroga sull'origine e il significato della vita, e che è anch'essa tipica della cultura e di tutte le espressioni artistiche del Sol Levante. Quella che Otomo ha portato sullo schermo è una città che cerca disperatamente di dimenticare la tragedia che l'ha sconvolta, nascondendosi dietro una facciata opulenta e scintillante: la notte, a Neo-Tokyo, è colorata da luci, suoni, locali notturni, ristoranti di lusso; ma sotto questa patina colorata, c'è una ferita più che mai aperta e sanguinante: ci sono disuguaglianze sociali, con ghetti che esplodono di rabbia e malcontento, c'è la polizia che spara su gente inerme, ci sono gang giovanili che dettano la loro legge, ci sono predicatori che auspicano l'avvento di un messia (Akira, per l'appunto) che dovrà purificare la città nel fuoco. Kaneda e i suoi amici si muovono in questo scenario come outsider, ribelli senza causa; spiriti liberi che con le loro moto squarciano, fisicamente, la notte di Neo-Tokyo facendo esplodere il contrasto tra la facciata scintillante della città e la sua realtà effettiva, fatta di sofferenza e disagio.
E' il giovane Tetsuo l'anello debole del gruppo, e sarà lui a far esplodere la tragedia: il suo contatto con il bambino-ESP durante una corsa in motocicletta risveglierà in lui poteri dimenticati tanti anni prima, ma che ora saranno liberi di venir fuori con tutto il loro potenziale distruttivo. La tensione e il risentimento accumulati nei confronti di Kaneda, sorta di fratello maggiore che ha sempre usato con lui un atteggiamento protettivo, saranno la molla che spingerà il ragazzo a usare i suoi poteri: preso dal desiderio irrefrenabile di dimostrare la sua forza a Kaneda, di poter affermare finalmente una superiorità sull'amico, Tetsuo fuggirà dalla base militare in cui è tenuto prigioniero, uccidendo tutti coloro che cercheranno di ostacolarlo, e dirigendosi verso l'entità che lo sta richiamando, fonte per il ragazzo di un tormento insopportabile: Akira. La vera natura di quest'ultimo, invero, ci resta fino alla fine oscura: sappiamo che era l'oggetto di un progetto governativo top-secret, che mirava a sviluppare una fonte di energia smisurata; sappiamo che fu probabilmente la vera causa dell'esplosione del terzo conflitto mondiale; sappiamo che il suo involucro fisico è morto, ma la sua essenza, viva e tuttora operante su un piano diverso da quello fisico, viene conservata in una serie di provette, tenute sotto massima sorveglianza in un luogo segreto. Sappiamo, soprattutto, che è pericoloso, e che la sua liberazione fisica potrebbe portare alla distruzione (o alla rinascita) del mondo. Qualcuno dei personaggi ipotizza che Akira sia l'entità primeva da cui ha avuto origine l'universo, ciò che è esistito prima della nascita del tempo. C'è forse l'essenza di Dio, in quelle provette tenute sotto massima sorveglianza? Questo, fino alla fine del film, non ci è dato saperlo.
Quello che vediamo, nel finale, è questa entità che, liberata dai tre ragazzini sensitivi, attrae a sé questi ultimi e Tetsuo (ormai trasformatosi in una creatura mostruosa senza controllo), inglobandoli in una sfera di energia al cui interno, forse, si sta consumando una nuova genesi. "Non è possibile", dice l'esterrefatto scienziato che sta osservando lo spettro vitale di Akira attraverso le sue apparecchiature, "questo è il grafico della nascita dell'universo". Una nuova nascita, quindi, generata dalla simbiosi di cinque esseri che sono stati legati da un filo misterioso per tutta la loro esistenza; una nascita che porta intorno a sé la distruzione, ma che risparmia il giovane Kaneda, richiamato con forza a sé dalla sua amica Key: lui, evidentemente, appartiene a questo mondo, ed è nel suo ventre devastato, ma bisognoso anch'esso di un nuovo inizio, che dovrà ricominciare a vivere. Il fascino del finale del film è totale, e chi scrive non crede di dire un'eresia sostenendo che, per la sua forza visiva, esso può essere tranquillamente paragonato al finale di un capolavoro della storia del cinema come 2001: Odissea nello spazio.
Un altro elemento fondamentale per la riuscita di questo film è la musica: la splendida colonna sonora composta da Shoji Yamashiro, con i suoi suoni sintetici, ipnotici, uniti a motivi quasi tribali, si integra alla perfezione con la potenza delle immagini, creando un insieme di grande suggestione. Alla luce di tutto questo, quindi, poco importa se alcuni particolari della trama restano piuttosto oscuri, o se la comprensione di alcuni passaggi ci è negata da una sceneggiatura che non poteva condensare un'opera di tale complessità in sole due ore: quella che conta è lasciarsi andare a un'esperienza visiva straordinaria, che ha un impatto devastante ma è allo stesso tempo pregna di significato, mai fine a sé stessa.

Pare che Hollywood sia intenzionata a proporre un remake "dal vivo" di questo film, secondo una moda che ultimamente sta coinvolgendo diverse produzioni (soprattutto recenti) orientali: non ci resta che attendere, consci che sarà difficilissimo restituire la grande potenza delle immagini create da Otomo e dal suo staff, ma soprattutto che sarà estremamente arduo ricreare l'atmosfera e le suggestioni, tutte tipicamente giapponesi, che hanno animato e fatto la fortuna di un'opera come questa.

Movieplayer.it

5.0/5